Tino Oldani, ItaliaOggi 3/7/2015, 3 luglio 2015
INCREDIBILE: PRODI ACCUSA LA GRECIA DI AVERE TRUCCATO I CONTI PER ENTRARE NELL’EURO. MA IL PRIMO A FARLO È STATO PROPRIO LUI
Ci risiamo. Ancora una volta, Romano Prodi accusa la Grecia di avere truccato i conti per entrare nell’euro. Lo dice nell’intervista rilasciata ieri a Repubblica, e lo fa con l’aria scandalizzata del professore che la sa lunga sull’Europa, essendo stato per cinque anni (1999-2004) presidente della Commissione Ue. Peccato che Prodi dimentichi un dettaglio, che lo riguarda in modo diretto: prima della Grecia, fu proprio lui, in quanto premier, a falsificare il bilancio dello Stato italiano proprio per entrare nell’euro. Un falso in bilancio clamoroso, raccontato nel maggio 2012 dal settimanale tedesco Der Spiegel, che, a conclusione di un’inchiesta ampia e documentata (titolo: «Operazione autoinganno»), scrisse che l’avere accettato l’ingresso dell’Italia nell’eurozona «ha creato il precedente per un errore ancora più grande: l’ingresso, due anni dopo, della Grecia».
Certo, sono passati quasi 20 anni, e a una certa età la memoria, a volte, fa cilecca. Ma inventarsi balle spaziali per riscrivere la storia a proprio merito, è davvero troppo. Per Prodi, «la Grecia è entrata nell’euro perché ha potuto ingannare vergognosamente sui dati reali della propria economia grazie al fatto che Francia, Germania e Italia avevano rifiutato il doveroso controllo europeo sui bilanci, magari affidato alla Corte dei conti». La verità è che l’Italia non ha mai rifiutato «il doveroso controllo sui bilanci», ma ha fatto di tutto per aggirarli, riuscendo nell’impresa solo perché Germania e Francia fecero finta di non vedere.
Che l’Italia non fosse in regola lo sapeva la Francia, tanto è vero che l’allora commissario Ue agli affari economici, il francese Yves De Silguy, in un’intervista al Corriere della sera (3 agosto 1999), raccontò: «L’Italia proponeva alla Spagna di fare blocco per entrare anche senza il pieno rispetto dei parametri. Gli spagnoli risposero che loro sarebbero entrati da soli, rispettando i parametri, e gli italiani dovevano arrangiarsi. Da allora è iniziato il grande sforzo dell’Italia per rispettare i criteri di convergenza».
Anche il cancelliere tedesco, Helmut Khol, vero dominus dell’introduzione dell’euro, sapeva tutto sui conti (pessimi) dell’Italia. Da Roma, i funzionari dell’ambasciata tedesca avevano spedito a Bonn (allora capitale della Germania Federale) decine di rapporti riservati in cui si sosteneva che, con un debito pubblico vicino al 120%, l’Italia non avrebbe mai potuto rispettare le condizioni previste dal trattato di Maastricht. Non solo, quei rapporti (consultati da Der Spiegel) spiegavano anche come e perché le misure di risparmio messe in bilancio da Prodi e dal ministro del Tesoro di allora, Carlo Azeglio Ciampi, si basavano su trucchi contabili e operazioni di cosmesi, a cui si aggiunse un’apposita tassa.
Nel 1996, per rientrare nei parametri Ue, Prodi varò una pesante manovra di bilancio, pari a 57 mila miliardi di lire, a cui aggiunse l’eurotassa (circa 5 mila miliardi), promettendone la restituzione. Promessa poi mantenuta solo per il 60%, e in modo puramente virtuale, poiché quella «tassa una tantum» fu riassorbita poco dopo da due imposte fisse, l’addizionale Irpef regionale e quella comunale. Quanto a Ciampi, ha scritto Der Spiegel, «si distinse come abile giocoliere finanziario creativo, vendendo alla banca centrale una parte delle riserve auree nazionali e recuperando tasse da questo guadagno. Il deficit di bilancio crollò di conseguenza». Un aiuto insperato venne anche dai tassi, «all’epoca storicamente bassi», che ridussero l’onere degli interessi sul debito.
L’allora ministro del Tesoro tedesco, Theo Weigel, disse che «senza Ciampi l’Italia non sarebbe mai entrata nell’euro». Giudizio condiviso dal fidato consigliere di Khol, Joachim Bitterlich, che l’ha ripetuto a Der Spiegel: «Tutte le speranze tedesche erano riposte in Carlo Azeglio Ciampi, allora ministro del Tesoro. Per tutti era come un garante dell’Italia, lui ce l’avrebbe fatta». Checché ne dica oggi Prodi, il quadro era chiaro. «L’Italia non aveva i conti in regola, e il cancelliere Khol ne era consapevole», ha scritto Der Spiegel. «Ma per motivi di opportunità politica non si mise di traverso». In pratica, Khol non volle lasciare fuori dall’euro un Paese come l’Italia, che era stato tra i fondatori dell’Europa unita. Lo fece per calcolo politico, in quanto temeva che, a quel punto, la Francia si sarebbe potuta sfilare, visto che anche Parigi aveva un bilancio statale piuttosto malmesso. E lo fece, come dichiarò in seguito, perché convinto che il suo progetto «era sospinto dalla forza della storia».
Il seguito della vicenda è noto. Gli interessi materiali si sono sostituiti in fretta ai nobili ideali. Con l’euro, l’Italia non ha più potuto svalutare la moneta per compensare la minore produttività del sistema Paese, appesantito da ritardi in ogni campo (burocrazia, fisco, giustizia, lavoro). Così l’euro è diventato una moneta troppo forte per la nostra manifattura, mentre si è rivelato debole per quella tedesca, favorendone l’export ai nostri danni. Austerità e tasse a go-go hanno fatto il resto, portandoci nel pantano che dura tuttora. Tasse, è bene ricordarlo, che hanno preso a correre proprio con l’eurotassa. Per questo il tentativo di Prodi di riscrivere la storia pro domo sua è inaccettabile, e va respinto al mittente.
Tino Oldani, ItaliaOggi 3/7/2015