Massimiliano Castellani, Avvenire 3/7/2015, 3 luglio 2015
KOBE BRYANT, QUANDO FACEVA L’ITALIANO
A Montecavolo (Reggio Emilia) l’estate di un quarto di secolo fa c’era un ragazzino di colore, classe 1978, che dalla mattina alla sera non faceva che tirare a canestro al campetto da basket dell’oratorio della parrocchia dell’Annunciazione. Quel ragazzino dal nome di una bistecca giapponese - la preferita dai suoi genitori - “Kobe”, è il figlio di Joe Bryant, ai tempi il gigante (206 centimetri d’altezza) americano della Pallacanestro Reggiana. La favola di Kobe Bryant, il più forte cestista del mondo, è passata da qui, da questo lembo d’Emilia, in cui, prima dell’arrivo della sua famiglia, d’americano c’era solo il sogno rock, al retrogusto di lambrusco e popcorn, di Luciano Ligabue. Reggio Emilia è stato l’approdo finale, la settima e ultima stagione italiana dell’ex stella dei Philadelphia 76ers Joe Bryant che, nel 1984, a trent’anni, accettò la sfida europea. Atterrato nella terra della pastasciutta, l’insidia maggiore per Bryant senior era proprio quella di lievitare di peso e alimentare la fama del “Jellybean” (la caramella gommosa) della Nba. Con la moglie Pamela, Kobe e le sue sorelle maggiori, Shaya e Sharia, Joe dopo un provino da fantascienza - per i parametri nostrani - strappò un ingaggio alla Sebastiani Rieti (serie A2).
Così «fu nell’Umbilicus Italie », come raccontano Fabrizio Fabbri e Edoardo Caianiello nel libro fresco di stampa Kobe Bryant. Il morso del Mamba, che ebbe inizio la fantastica storia di un predestinato a salire sul trono dell’Nba. Kobe a sei anni si ritrovò catapultato nella piccola Rieti, iscritto alla scuola Marconi. In pochissimo tempo il ragazzino dalla canottiera n.11 (quella del big daddy) sempre in dosso, masticava italiano e “slang” sabino facendo da interprete ai genitori. Tra un piatto di amatriciana e due passi di breakdance, primi segnali del baby prodigio che, per Italo Di Fazi della Sebastiani, non era Kobe, ma il «piccolo “Coppi”». Nei tornei di minibasket umiliava gli avversari, al punto che gli allenatori erano costretti a toglierlo dal campo per placare l’ira degli altri genitori. Che il ragazzo avesse la stoffa del campione suo padre lo capì presto e la conferma glie la diedero gli applausi scroscianti degli ottomila del PalaEur di Roma accorsi all’All Star Game dell’86. Durante l’intervallo “little Bryant” li stregò con una serie di tiri in sospensione, canestri da tre e numeri degni di un veterano del basket. Papà Joe venne premiato come miglior giocatore della partita, ma la vera star della serata era stato quel figlio d’arte, pronto a superare il maestro.
La luce della stellina si illuminò anche a Reggio Calabria, seconda tappa del viaggio in Italia dei Bryant. Nel minibasket della Viola, gli concedevano solo 5 minuti a partita, il tempo necessario per mostrare l’abisso tra i coetanei e il figlio del grande Joe che una domenica contro Pescara firmò 69 punti personali. Terzo tempo a Pistoia, dove Kobe come sempre era onnipresente a bordo campo per sostenere papà Joe, cecchino dalla media invidiabile di 35,8 punti a stagione. Quando scese sotto i 30 punti, allora era giunto il tempo di fare i bagagli per quell’ultima sosta nel Belpaese: Reggio Emilia. Qui Bryant jr. andava a scuola dalle suore dell’Istituto San Vincenzo dove lo ricordano studente altrettanto rapido nell’apprendimento quanto nell’andare a canestro. Imparò a giocare bene anche a calcio, tant’è che la vulgata popolare narra di una insegnante di educazione fisica che per caratteristiche fisiche (era gracilino, lontano dalla statua muscolare dei 198 centimetri odierni) gli sconsigliò la pallacanestro, invitandolo piuttosto a perseguire la passione per il “soccer” . Ma pur appassionandosi al Milan - di cui è rimasto un grande tifoso - la sua materia preferita era il basket, e in particolar modo lo studio dei filmati di Michael Jordan. Ogni singolo movimento del suo idolo dei Chicago Bulls li riproponeva sul parquet del PalaBigi durante gli intervalli delle partite paterne. Andrea Menozzi, tecnico delle giovanili della Pallacanestro Reggiana lo inserì nel quintetto dei più grandi (i classe ’77) e quando disperatamen-te tentava di riportarlo in panchina, dopo qualche minuto il piccolo Kobe se ne usciva in un pressing implorante, con tanto di cadenza pistoiese: «Fammi entrare coach che fò canestro ». E il canestro era assicurato. Nel ’91 il bimbo d’oro rimpatriò assieme alla famiglia e per lui si aprirono le porte della Lower Merion High School (Pennsylvania). Sotto la guida di Greg Downer affinò le sue doti, ma le basi le aveva apprese in quel settennale italiano, anche grazie all’incontro con il grande Charlie Yelverton, il cestista-jazz (ex Varese) rimasto a vivere a Miazzina, sopra il Lago Maggiore. «Se non fossi vissuto in Italia quasi certamente non avrei imparato a palleggiare con la mano sinistra, come accade a tanti giocatori cresciuti e formatisi negli Usa», confessa un maturo Kobe. Negli Stati Uniti però, almeno ogni vent’anni nascono fenomeni del suo calibro, che dalla squadra del liceo atterrano direttamente sul pianeta marziano dell’Nba. A 18 anni e 72 giorni, Bryant jr. debuttò con i Los Angeles Lakers. Era il ’96, ma fino all’inizio del nuovo millennio sarebbero stati anni da andamento lento per la “guardia nazionale”. Una coesistenza per niente semplice con l’altro alieno, Shaquille O’Neal, prima di diventare il leader assoluto dei gialloviola di L.A. La svolta avvenne quando i Lakers passarono sotto la guida di Phil Jackson, il quale capì che il problema di Bryant era quello del «classico caso in cui il figlio deve realizzare i sogni incompleti del padre». La terapia d’urto di Jackson oggi sappiamo che ha funzionato a meraviglia, liberando quel veleno interiore che è diventato il siero letale di colui che nell’Nba ormai tutti chiamano il “Black Mamba”. Il temutissimo serpente Kobe, il genio del «buzzer beater», il canestro al suono della sirena che annichilisce gli avversari. Il fattore “K” dal 2000 al 2010 ha portato cinque anelli (titoli Nba) nella bacheca dei Lakers e due ori olimpici di fila (Atene 2004 e Pechino 2008) al “Dream Team” americano. Nel curriculum della magica canottiera n. “24” - la più richiesta e venduta nel mondo - figurano tutti i primati possibili che ne fanno il terzo marcatore di sempre nel basket a stelle e strisce e con Wilt Chamberlain condivide il record degli oltre 50 punti realizzati in quattro gare consecutive.
L’uomo da 25 milioni di dollari l’anno, non ha il carattere del «napoletano di Philadelphia» , alias suo padre Joe, ma anzi si definisce un «lunatico». Colpa forse di una vita sempre sotto i riflettori che lo ha reso una superstar, anche se in fondo è rimasto il ragazzo della palestra della Lower Merion. Non dimentica il suo passato Kobe e nel 2011, quando per il lockout della Nba è stato in trattativa con la Virtus Bologna per venire a giocare qualche partita nella nostra serie A, ha preso la palla al rimbalzo per tornare nei luoghi dell’infanzia. A Montecavolo, all’alba, emozionato come il bambino di ieri, è salito all’oratorio dell’Annunciazione, ha salutato qualche vecchio amico, poi è rivolato nel suo mondo. Un quotidiano dorato, ma fatto anche di sacrificio, di allenamenti massacranti per essere sempre il migliore. Per restare al top, ha “frantumato” tendini, dita delle mani, spalle, e da gennaio è di nuovo fermo per infortunio. Ha perso qualche occasione negli ultimi tempi, ma ciò che non perde mai è quel sorriso sornione che si porta dietro da quando era soltanto il “piccolo Kobe” che ai suoi milioni di fans manda a dire: «Nessuno è perfetto e non lo sono certo neanche io. Ma anche in questo so di essere un modello per i ragazzi che si ispirano al mio successo. Vedono i miei errori e pensano: “Non voglio sbagliare come lui”. Così, imparano a diventare adulti».