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 2015  luglio 01 Mercoledì calendario

IL MIO SCHETTINO DIVERSO DAL VOSTRO

l primo contatto risale a tre anni e mezzo fa, quando lei, in cerca di un’intervista, gli telefonava a casa, alla fine degli arresti domiciliari, e la moglie rispondeva: «Il comandante non c’è». L’ultimo a qualche giorno fa, quando, tra i clamorosi applausi che hanno scatenato l’ira del web, hanno presentato il loro libro-inchiesta sul naufragio della Costa Concordia, Le verità sommerse. In mezzo «un’intimità» come la definisce lei, che si e consolidata durante la stesura del libro, tra incontri, mail e sms. L’ultimo lui gliel’ha inviato dalla sua Meta di Sorrento: un panorama marino accompagnato dal messaggio: «Questo mare che mi ha tradito io lo amo ancora». Lui è Francesco Schettino, condannato in primo grado a 16 anni per il naufragio della Costa Concordia. La donna che offre uno sguardo controcorrente sull’uomo simbolo planetario della codardia è Vittoriana Abate, la giornalista di Porta a Porta che segue la vicenda dal giorno del dramma costato la vita a 32 persone: «È un uomo che vive in apnea» chiarisce Abate. Panorama l’ha incontrata nella sua casa dei Parioli, allo stesso tavolo dove per tre anni, con i suoi faldoni, il suo computer e le sue verità si è seduto Schettino.
Di chi è stata l’idea del libro?
Il comandante sentiva da tempo l’esigenza di raccontare quello che non aveva letto sui giornali. A partire dal contenuto della scatola nera, che secondo noi riabilita la sua manovra. Pare che i magistrati la pensino diversamente. Che metodo di lavoro ha utilizzato per tentare di confutare le loro tesi?
Arrivava qui e apriva il suo computer, dove c’è la sua vita in file ordinatissimi. Ho riempito sei quadernoni. Abbiamo seguito un ordine cronologico, studiato le carte, evidenziato le sviste del processo. Una volta a casa mi mandava mail. Il naufragio ormai rappresenta il suo pensiero unico. È stato lui anche a scegliere le frasi di Henry Miller, Oriana Fallaci e, anche, Anna Frank che aprono i vari capitoli. Da che si negava al telefono come è arrivato a scegliere proprio lei per il libro? Perché mi ci sono avvicinata sul piano emotivo. Quando sono riuscita a intervistarlo, l’ho ascoltato, e poi ho studiato tutte le carte che mi ha consegnato. Mi ha chiesto di scrivere il libro all’epoca dell’udienza preliminare, a Grosseto, quando gli proposi di andare a mangiare una pizza e quindi di rivedere insieme, per la prima volta, la Concordia. Fu un momento toccante, per rispettarlo camminavo tre passi dietro di lui. Fummo anche ampiamente fotografati, con relativi gossip.
Di una vostra relazione, oltre a Striscia la notizia che le ha consegnato il tapiro, ha parlato anche il quotidiano tedesco Bild additando lei come la causa di separazione tra Schettino e sua moglie. L’articolo della Bild è nato da una foto del comandante che entrava nel mio portone con le buste della spesa. Ma c’erano anche i suoi due avvocati che però sono stati tagliati dall’immagine. Stavamo organizzando una cena a casa perché uscire sarebbe stato una follia. Schettino è sempre stato molto protettivo nei miei confronti, evitando pizzerie e ristoranti.
E la separazione dalla moglie?
Ma è antecedente alla stesura del libro e semmai si deve alla presenza a bordo di Domnica Cemortan. E comunque tra noi c’è stato molto di più delle cene care al gossip. Un’intimità profonda, necessaria per scrivere un libro così delicato. Se non avessi dovuto seguire la sentenza, sarei rimasta anche con lui nel residence di Grosseto. Quel giorno aveva 40 di febbre. Fui io a dargli la notizia con un sms. Scrissi solo «16», gli anni della condanna. Lui rispose: «Ma l’abbandono della nave me l’hanno tolto?» È la condanna che lo fa soffrire di più, un reato diffamante per un uomo di mare.
Quali sono stati i momenti più critici?
Gli anniversari del naufragio. Anche se l’ho visto anche più provato per il capitolo sui parenti delle vittime. Fino ad allora mi aveva sempre implorato di non chiedergli «della bambina», riferendosi a Dayana Arlotti, cinque anni, morta in mare. Un giorno invece arrivò qui e tirò fuori la lettera che aveva scritto alla mamma di Dayana. Aveva le lacrime agli occhi. Come l’ha sostenuto?
Lo ascoltavo. Vista la sofferenza che si porta dietro, gli ho anche consigliato di farsi aiutare da uno psicologo. Schettino è un uomo che non ha più un lavoro, distrutto professionalmente e moralmente. Nei suoi occhi è impressa la tragedia. Nelle orecchie il suono perforante degli allarmi di emergenza contenuti nella scatola nera. Vive per il processo di appello, con l’unico svago di qualche nuotata.
Qualche festa però se l’è concessa, ci sono le foto a un party a Ischia a dimostrarlo. Era la cena del nostro editore per tutti i suoi autori. E sono stata io a trascinarcelo, per farlo uscire di casa. Reagì malissimo: lui è uno che evita i contatti sociali, non prende più neanche il treno, non va al cinema... Dallo psicologo poi c’è andato?
Dice che prima o poi lo farà. Per ora cerca conforto nella religione, va in chiesa e non si separa mai dal crocefisso che ha al collo. Per sostenerlo mi sono messa anch’io su questa linea: alla vigilia della sentenza gli ho regalato una madonnina di Lourdes. La risposta che non si aspettava?
Quando gli ho chiesto se c’era qualcosa che non avrebbe rifatto tornando a quel 13 gennaio mi ha detto: «Il mio unico errore è stato quello di non morire. Non avrei subìto questo massacro mediatico». Ma era proprio il caso di dedicare il libro ai parenti delle vittime?
Sì, perché il libro è nato per restituire a loro un’altra verità. Schettino e io troviamo molto più scandalosi i selfie che avvocati e magistrati si sono scattati in aula aspettando il verdetto.