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 2015  luglio 02 Giovedì calendario

«MILAN, IBRA TI FA VINCERE LE MARATONE E RENDE TUTTI PIU’ SICURI»

Ogni cosa è illuminata. «Milano non ha bisogno di nulla di diverso da quello che ha per ripartire. La tradizione calcistica porta la voglia di costruire, porta persone che hanno voglia di esserci e creare qualcosa. Io adoro Milano». Non c’era bisogno di specificarlo. Leonardo è appena tornato dal Brasile per rituffarsi nel clima rovente della città che con Rio de Janeiro ama di più. Ha portato con sé l’amarezza di un calcio che deve ritrovarsi ma anche colore, energia. La stessa energia che lo porta a parlare del suo passato francese e dei club milanesi con la passione di sempre, lo porta a immaginare mondi calcistici che ancora non ci sono, ma potrebbero esserci, e a celebrare talenti che non hanno tempo. Leonardo è un viaggiatore. Ha cinque figli, vive sospeso da sempre fra due continenti, la carta geografica della sua carriera è piuttosto varia, ma Milano è un punto fermo, come l’affetto per Milan e Inter, dove ha scoperto un lavoro nuovo. Lavoro che si porta dentro, anche se il taglio del discorso è sempre quello di un professionista che ama progettare più che scegliere formazioni.
Leo, il calcio di Milano è fuori dall’Europa nell’anno dell’Expo: un momento storico, in negativo.
«Ma nessuna città ha due squadre come Milano, dello stesso livello e con una grande storia, tutte e due. Milano in questo senso è unica e saprà risollevarsi. Mi pare che tutti e due i club si stiano muovendo tantissimo sul mercato».
Al Milan si parla molto di Ibrahimovic.
«A questo punto della carriera Ibra deve fare una cosa che desidera, deve andare dove si sente bene. Non credo che sia più una questione di progetto, ma di cuore, anche se Ibrahimovic è sempre stato molto razionale. È una persone di parola, uno molto dotato di autocritica: quando non ce la farà più a giocare ai suoi livelli smetterà».
Quindi riprenderlo è una buona idea?
«Non conosco le cose da dentro, non sono più al Psg da tempo. Ma io uno come Ibra lo vorrei sempre dalla mia parte. Incide sulla squadra a livello tecnico e psicologico. Tutti i compagni con lui in campo si sentono più sicuri. Non è un caso che abbia vinto così tanti campionati: è un segno di costanza ad alto livello. I campionati sono maratone, la Champions League è un insieme di gare di cento metri. Se Ibrahimovic decide di affrontare di nuovo il campionato italiano è perché sa che può essere ancora incisivo, come è abituato ad essere».
La stampa francese lo ha attaccato: stupito di questo?
«Non credo che si sia trattato di un attacco, piuttosto della reazione a un amore non del tutto corrisposto. Ibra in Francia è un mito, è la faccia di copertina non soltanto del Psg, ma di tutta la Ligue 1: un’icona nel senso vero del termine».
Anche lei in Francia era amato: l’appendice finale della squalifica l’avrà ferita molto.
«Il mio amore per la Francia non è finito. Da dirigente ho vissuto un momento di transizione molto difficile da interpretare e gestire. Quando sono arrivato in Francia l’ultima giornata di campionato era fissata lo stesso giorno della finale di Champions, non so se mi spiego. C’erano istituzioni e strutture che non andavano alla stessa velocità di una proprietà come quella del Psg, nuova e ambiziosa. Per me è stata un’esperienza forte, ora mi sento più completo, in grado di assumere qualsiasi responsabilità».
In Italia molti non hanno ancora capito se lei preferisce fare l’allenatore o il dirigente.
Risata sincera. «Io non posso cambiare la mia natura. Sarò sempre un allenatore che ha un occhio al progetto. Nella mia vita ho colto le occasioni, e ringrazio di averle avute. Sono stato sei anni dirigente al Milan, la gente magari non lo sa e da fuori non vedeva nemmeno quello che facevo, ma con Galliani ho imparato tanto. Poi sono diventato allenatore, poi sono passato all’Inter, quindi è arrivato il Psg...».
Adesso magari potrebbe fare qualcosa in Brasile.
«Io parlo di un sistema che per ora non esiste. Il Brasile avrebbe potuto fare la Nba del calcio, già trent’anni fa, per la sua fama e i suoi talenti. Non lo ha fatto, e ora non ci sono le strutture per rialzarsi. Ci siamo sempre affidati al talento, ma il talento da solo non basta. La rendita del talento è finita e l’eliminazione dalla Coppa America lo ha mostrato in maniera evidente. Serve il contenuto di calcio».
Si spieghi meglio.
«Serve l’organizzazione che l’Italia ha sempre avuto e la Germania si è data negli anni. Serve fare come in Inghilterra. La Premier League è il modello, l’eccellenza: fanno un prodotto che piace, lo vendono, ma sotto ci sono valori e preparazione».
Un discorso programmatico, politico. Con tutto il caos e gli scandali, Fifa in primis, la parte politica del calcio non la spaventa?
«No, perché io non ho mai vissuto certe situazioni e so che dove ci sono io non ci sono loro. Cambiare il sistema non è utopia. Se la Fifa porta corruzione, basta svuotare la Fifa. Pensi a quello che succederebbe se le grandi nazioni decidessero di organizzare il Mondiale per conto loro, senza concedere i loro colori e le loro bandiere a un potere centralizzato che ha creato tanti guai».
Sembra un risultato difficile da raggiungere.
«Lo è, ma ci si può provare. Le istituzioni sono vecchie, il rinnovamento deve essere profondo: bisogna rimettere il calcio al centro del calcio, per così dire. Servono persone che conoscano il calcio più che la politica. E penso anche al Brasile, che ora ha tanti guai, perché quella sconfitta con la Germania dell’anno scorso ha cambiato la percezione di noi stessi, ci ha tolto autostima. Sarà difficile risalire, ma i talenti non mancano. Il sistema però va cambiato. Mi spiega com’è possibile che il presidente di una grande federazione semplifichi la sconfitta del Brasile nascondendosi dietro gli errori di Thiago Silva? Dimenticando poi che la squadra è stata eliminata dal Paraguay, che poi ha perso 6-1 con l’Argentina».
Beh, fra Mondiale e Coppa America Thiago non ha passato belle serate.
«Ma è sempre un giocatore tecnicamente ineccepibile. Ha avuto addosso troppa pressione, sia al Psg che in Brasile: la fascia di capitano di un Mondiale da giocare in casa è un peso enorme. Questo forse è stato il suo problema».
Dicono che interessi alla Juve.
«Non so nulla di questo, ma il valore di Thiago Silva non si discute. Come difensore ha tutto».
Fra gli obiettivi della Juve c’è anche Oscar.
«Grande giocatore. Lo volevo al Psg, poi l’anno dopo lo prese il Chelsea. Deve crescere in personalità, gli manca la rabbia, quella rabbia agonistica che ti dà peso in campo e rende più evidente la tua presenza nel gioco. Ma questo è il momento migliore per arrivare alla Juve».
Forse non il momento migliore per arrivare nel calcio italiano.
«L’Italia si è un po’ addormentata sugli allori, era sul tetto del mondo e ora non lo è più. Prima nel mondo si vedevano innanzitutto le partite italiane, ora quelle di Premier e Liga. Ma il movimento sta ripartendo. La Juve è un modello, ha sfruttato situazioni positive ed è risalita in fretta. Inter e Milan, e anche l’Atalanta ad esempio, pensano a ammodernare gli stadi: è un segnale».
Lei ha vissuto San Siro da giocatore e allenatore: il Milan farebbe bene a lasciarlo all’Inter?
«San Siro è un valore, ma bisogna guardare anche al futuro, sfruttare le possibilità che uno stadio può offrire per le finanze di un club. Comunque lo stesso dilemma si poneva a Parigi quando si parlava di un trasloco del Psg allo Stade de France. E se vuole il mio parere, fra Stade de France e Parco dei Principi avrei sempre scelto il Parco dei Principi per giocare. Questo però è sentimento e nel calcio bisogna pensare anche ad altro».
Parlando di business, il calcio americano si sta riempiendo di stelle: il suo amico Kakà, Lampard, adesso anche Pirlo. E’ il mercato del futuro?
«E’ un modello che funziona per loro. Gli americani non vogliono rivaleggiare con l’Europa, vogliono creare un sistema adatto ai loro gusti, divertirsi anche con il soccer. Stanno creando un buon prodotto, che economicamente funziona. Il Brasile avrebbe potuto fare una cosa simile trattenendo tutti i suoi talenti, ma il centro del calcio resterà sempre in Europa».
Adesso che ha lavorato e viaggiato tanto può raccontare molte storie. Il giocatore al quale è rimasto più affezionato?
«Dico Kakà che è tutto, dalla A alla Z. Mi rivedevo in lui, questa forse è la differenza con gli altri, e oggi è un mio amico. E’ la storia perfetta ma ogni giocatore ha la sua, e con tutti quelli che ho ingaggiato ho avuto un legame forte sul piano umano: non ho mai firmato il contratto con un giocatore senza prima studiarlo e parlargli. Per restare agli italiani, penso alle lacrime di Sirigu quando ha deciso di lasciare l’Italia per Parigi, o alla favola di Verratti, da Pescara al Psg con ambizioni europee, o a Thiago Motta, che ha voluto seguirmi in Francia nonostante una grande litigata all’Inter che ci ha avvicinato molto».
Verratti è l’erede di Pirlo?
«Verratti è diverso da Pirlo. Deve metabolizzare alcune cose, controllare alcuni impulsi, ma ha tutte le qualità che servono per prendere il suo posto, anche se ovviamente interpreterebbe il ruolo in un altro modo».
Leonardo, da milanese si aspetta che Milan e Inter risalgano subito?
«Anche la città sta ripartendo. Milano ha tante cose belle. Per me Milano è poesia concreta».