Azzurra Meringolo, Il Messaggero 29/6/2015, 29 giugno 2015
LA MINACCIA DAL CONFINE LIBICO CENTINAIA DI JIHADISTI IN ARRIVO
L’unico paese fertile ai semi della Primavera araba è al contempo il maggior esportatore di quei foreign fighters che ingrossano le file dell’autoproclamatosi “Stato islamico”. È questo il paradosso dietro il quale si nasconde una preoccupante realtà che va ben oltre le cifre ufficialmente dichiarate. Il governo tunisino parla di tremila giovani arruolatisi con le milizie del “califfo” o con quelle di Jabhat Al-Nusra. Chi, come l’avvocato Hazem Ksouri, segue da vicino le vicende di questi combattenti, ne conta però il triplo. Secondo Al Jazeera, che prova a mappare la provenienza di questi jihadisti, almeno mille sarebbero proprio di Soussa, località teatro della strage di venerdì che ospiterebbe dei veri e propri centri di reclutamento di potenziali terroristi.
La zona costiera non è però l’unica base di questo franchising del terrore, i cui tentacoli arrivano fino alle alture del monte Chaambi, a pochi chilometri dall’omonimo passo al confine con l’Algeria che nella Seconda guerra mondiale ospitò l’ultima vittoria delle truppe dell’Asse. Nella provincia di Kasserine, città al confine con il Chaambi, sono molti a combattere contro quello che sembra il triste destino delle fasce più giovani della popolazione.
LA RIVOLUZIONE«La rivoluzione del 2011 è scoppiata a pochi chilometri da qui, ma i suoi frutti non vi sono mai arrivati. Le diverse autorità che hanno governato dopo Ben Ali sembrano essersi scordati della nostra esistenza. Per questo i jihadisti sono venuti a cercare combattenti in questa striscia di terra depressa, offrendo soldi a ragazzi e ragazze che non intravedono alcun futuro» racconta Amzy, un giovane ballerino di Break Dance che ha messo in piedi una scuola di danza di strada per sottrarre gli adolescenti a quel vagabondaggio che può farli scivolare nei sentieri della malavita locale, anticamera del jihadismo.
Il problema sono anche quei combattenti arruolatisi con il califfo che decidono di fare dietro front da Siria e Iraq. Alcuni tornano in patria con una missione chiare: fare proselitismo nel loro paese di origine. Altri però sono pentiti. Tornano sui loro passi perché sono delusi: erano partiti sperando di trovare un paradiso, ma ad accoglierli c’era solo l’inferno. Visto che una legge tunisina del 2003 vieta il rientro dei jihadisti, tutti coloro che fanno marcia indietro sono obbligati a farlo clandestinamente. È per questo che finiscono segregati in casa o nascosti lungo i confini con Libia e Algeria. I luoghi più pericolosi per quanti cercano di redimersi. Il vuoto di potere creatosi all’indomani della caduta del vecchio dittatore libico ha infatti reso queste zone di confine terre fertili a traffici di ogni tipo. Contrabbando di droghe, armi e uomini. Già nel 2013 il ramo nord africano dell’International Crisis Group descriveva come queste terre erano usate dai cartelli di contrabbando. Erano diventate delle basi dalle quali riorganizzarsi per condurre i loro traffici, sfruttando la crescita della criminalità e servendosi anche delle gang degli estremisti pronti a fare di tutto per ingrossare le proprie casse. Dai confini porosi con Libia e Sahel provengono anche numerosi foreign fighters che usano un parte significativa del sud e dell’ovest della Tunisia come un corridoio per arrivare dalla Libia all’Algeria, fino al nord del Mali.
Dalla terra un tempo in mano a Gheddafi non arrivano però solo elementi dello “Stato islamico”. La Tunisia è stata anche la meta dei tanti libici disperati che hanno cercato protezione dalla guerra civile.
IL CAMPO PROFUGHIBasta fare un giro nel campo profughi di Shousha per capire che impatto ha avuto la primavera libica sul territorio tunisino. I libici che sono riusciti a fuggire lungo la costa hanno trovato rifugio in questo campo nato nel 2011 nei pressi della città di Ras Jdir, dove sono arrivati anche centinaia di altri subsahariani che avevano un lavoro nella terra di Gheddafi. «Benvenuti nell’inferno tunisino» ci aveva detto un operatore dell’Unicef accogliendoci a Shousha, pochi giorni dopo che il campo era stato devastato dalle tensioni tra rifugiati di diverse nazionalità e popolazione locale. «Il problema della Tunisia sono i suoi confini - aveva concluso l’operatore -. Nessuna primavera può portare i suoi frutti in una terra che è al contempo fertile alla democrazia e attraente per il crimine organizzato».