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 2015  giugno 29 Lunedì calendario

RAONIC AVVISA WIMBLEDON «TANTO VALE VINCERE SUBITO»

[Milos Raonic] –
Young guns, li chiamano. «Giovani pistole». Milos Raonic, 24 anni, montenegrino di nascita e canadese d’adozione, 196 centimetri di nitroglicerina pura e pronta ad esplodere, figlio di ingegneri e nipote dell’ex ministro dello sviluppo economico del governo di Podgorica, dorme con il dito appoggiato sul grilletto.
Sei titoli all’attivo, una vittoria eccellente su Federer, la finale del Master l’anno scorso. Dei top-10 è il più giovane: «Non sono lontano dal vertice, non mi pongo limiti» dice con una voce ancora in cambiamento, che alterna bassi baritonali ad acuti spassosi. Appena rientrato da un infortunio al piede (asportazione del neuroma di Morton), da n.9 del mondo (ma a maggio, prima dello stop, era n.4), insieme a Kei Nishikori è Milos la racchetta più bollente sull’erba di Wimbledon, al via stamane, ma con un vantaggio rispetto al giapponese: semifinalista a sorpresa l’anno scorso, Raonic i prati di Church Road li conosce come le sue tasche.
Milos, intanto sveliamo un mistero: la manica solitaria...
«Nessun vezzo, nessuna malattia misteriosa. A Miami, nel 2014, mi beccai un eritema solare. Il dottore mi prescrisse la maglia a maniche lunghe ma faceva troppo caldo. Sono un grande fan dei Toronto Raptors e mi sono ispirato all’Nba: una manica sciolta, da togliere e mettere per proteggere il braccio. La cosa divertente è che, insieme al servizio, è diventata un marchio di fabbrica».
Come si arriva a Brampton, Ontario, dal Montenegro?
«Nei primi anni 90 mamma e papà trovarono lavoro in Canada e lasciarono l’ex Yugoslavia. Io avevo 3 anni. Scoprii il Paese delle grandi opportunità: mi allenavo alle 6 di mattina con la macchina spara-palle perché a quell’ora era meno costoso...».
Come Agassi a Las Vegas.
«Conosco la storia del tennis e ho letto la sua biografia, dalla quale il tennis esce tutt’altro che bene. Però non direi che le nostre storie si somigliano».
Le sue radici dove sono?
«In Canada. Ho pochissimi ricordi di Podgorica da bambino e nessuna memoria nostalgica. Momir e Jelena, i miei fratelli, sono tornati a vivere in Montenegro e io vado a trovarli a Natale. Tutto qui».
Dicono che Raonic è il top player colto, che va per musei
«Leggo molto: biografie di atleti e businessman. Ho divorato quelle di Steve Jobs e Mike Tyson. Mi piace imparare, dalle persone e dai luoghi. I musei di New York li ho visitati tutti più volte e mi riprometto di organizzare un periodo senza tennis in Italia: i Musei Vaticani a Roma, gli Uffizi a Firenze, la Pinacoteca a Milano... Voglio vedere tutto: con la guida, per farmi spiegare».
Troppo tennis per permettersi una vacanza.
«Eh, se voglio crescere devo darci dentro. L’obiettivo è diventare il migliore e restarlo a lungo».
Auguri.
«È ovvio che per essere il numero 1 devo vincere gli Slam».
Cosa le consigliano i suoi coach?
«Riccardo Piatti e Ivan Ljubicic, che da voi è di casa, sono le mie radici italiane. Mi conoscono bene e assecondano le mie ambizioni. Con la sua enorme esperienza da allenatore Riccardo mi tiene con i piedi per terra. Ivan è stato un fior di tennista: sa cosa attraverso durante un match e sa consigliarmi per il meglio».
L’idolo assoluto?
«Pete Sampras. Come lui non c’è nessuno».
L’ha conosciuto?
«Nel 2011, al torneo di San José, in California. Mi diede un consiglio che non ho più dimenticato: sei un campione solo se dai il meglio anche quando non sei al meglio».
L’ha seguito?
«Subito. Quell’anno sconfissi Verdasco in finale e conquistai il mio primo titolo Atp. Poi a San José ho rivinto altre due volte».
Wimbledon: da 12 anni se lo spartiscono i Big Four. Le giovani pistole sono pronte al passaggio di consegne?
«Sta soltanto a noi: il destino è nelle nostre mani. Federer è un grande esempio, Djokovic più forte che mai, Murray tenta il bis e Nadal è... Nadal».
E Raonic?
«Ci provo. Se voglio essere il migliore, tanto vale esserlo da subito».