Isabella Bufacchi, Il Sole 24 Ore 30/6/2015, 30 giugno 2015
PRESTITI, DALL’ALLUNGAMENTO DELLE SCADENZE A GREXIT: TUTTI GLI SCENARI PER L’ITALIA
Pur se l’esposizione (intesa come rischio potenziale) dell’Italia nei confronti della Grecia si può contare in decine di miliardi di euro, con una “forchetta di oscillazione” a seconda dei calcoli tra 36 e 65 miliardi, finora la Grecia è “costata” relativamente poco ai conti pubblici italiani, Il debito pubblico è aumentato già, a causa della Grecia, di 35,9 miliardi (senza tenere conto però dei 14,2 miliardi versati dall’Italia per la capitalizzazione dell’ESM, il meccanismo di stabilità finora non coinvolto con Atene ma che entrerà in gioco nel caso di nuovo bailout). Tuttavia l’importo dell’esposizione potenziale totale (che si estende al rischio che le banche greche non ripaghino la Bce o la Banca centrale greca fino al rischio Grexit) non costituisce automaticamente un costo o perdita in conto capitale: nel caso in cui la Grecia dovesse rimborsare integralmente e puntualmente il suo debito con i creditori “official”, tra i quali l’Italia, il debito italiano salito finora per finanziare la Grecia scenderebbe per l’importo rimborsato.
Per ora l’aiuto finanziario alla Grecia concesso dall’Italia, direttamente con prestiti bilaterali per 10,2 miliardi risalenti al 2010 e al 2011 e indirettamente tramite l’Efsf per 25,7 miliardi, è stato solo un “cattivo investimento”. La rinegoziazione del debito greco del dicembre 2012, con i partners europei, è stata molto favorevole ad Atene: 1) un allungamento delle scadenze di 15 anni; 2) un periodo di grazia sugli interessi di 10 anni; 3) abbassamento tassi di interesse di 100 punti base. Queste condizioni spuntate dalla Grecia sono molto favorevoli e difficili da replicare per l’Italia quando si finanzia sul mercato: quindi è plausibile che a partire dal dicembre 2012 per le casse dello Stato italiano la concessione dei prestiti alla Grecia non abbia reso nulla, anzi.
Lo scenario peggiore resta quello che trasforma l’intera esposizione del creditore in una perdita totale. In altre parole, qualsiasi tipo di coinvolgimento dello Stato italiano nelle vicende greche, attraverso l’EFSF ma anche come controparte delle banche greche tramite l’Eurosistema e la banca centrale greca, rischia di causare perdite consistenti nel caso estremo di Grexit, di uscita dalla Grecia dall’euro. Se questo dovesse avvenire, e se la “nuova dracma” incorporasse una svalutazione del 50% rispetto all’euro, il rimborso da parte di Atene dei prestiti denominati in euro (valuta estera) comporterebbe un haircut (taglio sul capitale) equivalente come minimo all’entità della svalutazione.
Lo spettro della Grexit, che si aggira sui mercati da anni, mette più paura da qualche giorno, da quando Alexis Tsipras ha indetto il referendum sulle condizioni del nuovo programma di aiuti alla Grecia e quindi, anche se non esplicitamente, sulla permanenza della Grecia nell’euro. Un voto favorevole all’euro allontanerebbe, forse in via definitiva, il pericolo dell’uscita di Atene dall’euro e quindi al momento è un’ipotesi del tutto aleatoria.
Quel che invece rappresenta un rischio maggiore di effettiva perdita per l’Italia è la possibilità, questa sì reale, di una nuova rinegoziazione del debito pubblico greco. Tsipras avrebbe detto, a inizio trattativa sul nuovo piano di aiuti, di non essere disposto a ripagare integralmente e puntualmente il debito pubblico ai creditori istituzionali. È possibile che la risposta dei partners europei sia stata quella di un’apertura a un’ulteriore allungamento delle scadenze e abbattimento degli interessi. Ma se Tsipras dovesse essersi spinto oltre, pretendendo un haircut cioè una forbiciata sullo stock del debito pubblico, ecco allora che i creditori si sono irrigiditi. L’euro è già uscito con le ossa rotte dal PSI, la ristrutturazione del debito pubblico greco con perdita inflitta agli investitori creditori privati: un OSI ora, official sector involvement con haircut, sarebbe un pessimo segnale di come l’Eurozona risolve il problema dell’alto debito/Pil dei suoi Paesi in difficoltà, anche perché privi dello strumento della svalutazione del cambio.