Domenico Quirico, La Stampa 28/6/2015, 28 giugno 2015
“IO, SCELTO PER GUIDARVI” QUANDO AL BAGHDADI PROCLAMÒ LO STATO ISLAMICO
Un anno fa. L’uomo corpulento, avvolto nel suo barracano da saggio apostolo avanza sul pulpito. L’arabo fluisce elegante come 1400 anni fa : «… Sono stato scelto per guidarvi ma non sono migliore di voi. Se vedete che ho ragione allora appoggiatemi, ma se vedete che ho torto, allora consigliatemi e riportatemi sulla retta via…». Il califfo Abu Bakr. L’ombra di dio sulla terra, l’hakam, l’Arbitro.
Un infervorato propagandista si rivolge allora alla folla: «Il vostro califfo è un discendente del profeta e noi dobbiamo amare la famiglia del profeta, dobbiamo sostenerla con il nostro denaro con il sacrificio delle nostre vite, con tutto ciò che abbiamo… in nome di dio misericordioso, giuriamo la nostra alleanza!».
Gli risponde un tuono: «Noi giuriamo al comandante dei credenti, al califfo di musulmani!». «Takbir» ordina, tre volte, l’ossesso: «Dio è grande» riprendono, tre volte, i fedeli.
Appena un anno fa. Già, ma perché dire appena. Un anno è un tempo interminabile quando dentro ci devi collocare i morti, gli sgozzati, le rovine, gli Stati decomposti, le armate apparentemente invincibili tagliate come da fiamme ossidriche, i popoli messi in fuga, la rognosa mania di onnipotenza. La sofferenza di masse tanto impotenti in uno spazio così ristretto ci avverte che non è più possibile riconoscere il singolo. Ecco il tratto meccanico travolgente, tipico delle grandi catastrofi.
Come hanno fatto in un anno a riempire i cuori di cenere e tenebra? La morte non è un sogno. Come hanno colmato di questo orrore tutti i vuoti dell’universo? Il cuore di migliaia di ragazzi musulmani era un fascio di messaggi celesti, come una notte di estate, e l’hanno oppresso. Sedevano sulle terrazze di Mosul profumate di mirto, sotto le costellazioni, e udivano invece i baratri flagellati da catene di inferno. Un dio di castigo, un dio di eterna vendetta hanno loro insegnato ad adorare, ancora incolpevoli; Moloch divoratore, Satana torturatore e lo hanno chiamato dio.
Il silenzio dei vivi
Appena un anno… vorrei andare a Mosul. Girare per i suoi vecchi vicoli e le strade ampie dove asciugano alla luce i suoi secoli d’ombra e di vecchia vita muffita e polverosa. Invece la notte è senza confini e non udiamo che l’eco fievole della città come un mare lontano. Tutto è chiuso secco sordo. Ci si affeziona alle cose anche per le sofferenze che ci danno.
Un giudizio vero sul califfato e la sua guerra crudele potrebbero darlo soltanto i morti, poiché solo essi l’hanno vissuto fino in fondo. I sopravvissuti? Tacciono, sono muti: chi è mai andato ad ascoltarli laggiù, a Raqqa o nella pianura di Ninive? Chi può dire di conoscere e poter raccontare, senza mentire o inventare, l’universo interiore di questa gente, i forsennati del califfato e i loro sudditi involontari? Un anno appena e il nostro mondo, il mondo moderno non li sfiora più. Sono immuni dalla nostre abitudini che fino a ieri erano, in parte, anche le loro. Non conosceranno più i nostri laceranti smarrimenti, i disagi e i desideri discordanti che sono la nostra debolezza e il nostro faticoso regalo al mondo. Sono già immersi in un ambiente a misura dei loro nuovi padroni e se ne contentano: come potrebbero pretendere altro se non a pena della vita? Quando vedo nei documentari della propaganda del califfo i loro bimbi che ridono felici, impugnando armi più grandi di loro, non posso non provare un sentimento di rimpianto, di commozione.
Sappiamo di città illuminate a giorno e brulicanti, ma ce le hanno tolte quel 29 giugno quando il nuovo califfo annunciò la rinascita del califfato. Le abbiamo immobilizzate nel pensiero, non vi succede più niente, è un film bloccato. Un modo di pura ripetizione senza anima: esecuzioni e preghiere, bombardamenti e sharia, mentre noi viviamo giorni che non contano, attendendo il momento in cui questa nuova storia di musulmani abborderà la nostra. Ci sono solo queste voci, quelle degli uomini del califfato, voci dal ferro e dal fuoco studiate per generare paura: il confine della parola. È nata un’altra Storia che noi non riusciamo a penetrare, è la vera rivoluzione che il califfato in soli 365 giorni ha conficcato nel cuore del mondo.
Le regole del terrore
Oggetto finale di quell’odio giubilante, guardiamo dietro i nostri ripari apparentemente sicuri come da dietro delle inferriate passare come l’immagine dell’oscura corrente del destino, e ci sembra eccitante e istruttivo. Ma ci sfugge che davanti a noi, nel buio si sta capovolgendo l’asse su cui è ruotata la Storia. Hanno allentato le prime viti: la morte degli stati nazione che abbiamo imposto agli arabi, e l’annientamento o la dispersione delle minoranze religiose o etniche.
Milioni di persone nelle province ex siriane di Raqqa, Deir Ezzor, Hassaka e Homs e in quelle irachene di Ninive, Kirkuk e Tikrit sono da più di un anno amministrare dalle sedici regole del califfato in difesa della unicità di dio, il tawhid. Abbiamo assistito, inorriditi, alle esecuzioni di massa, amputazioni, crocefissioni, lapidazioni, sventramenti. Il califfato ci ha messo di fronte a una morte che non conosciamo. Non più la morte calma delle nostre città, in mezzo ai bambini, con le mani diventate d’avorio sulle lenzuola bianche. La morte per massacro, oscena, con membra squartate, nei miscugli di carne e di stoffa e di sangue. Non ne hanno paura, possono scambiarsi con energia feroce le parti di scannatore e di vittima. Gli uomini del califfato hanno acquisito grazie a una fede totalitaria, il diritto di vivere a ritroso, insensibile e sordo, con l’occhio fisso su quest’ultimo istante, aggrovigliati al nulla.
Poter ritrovare la vita comune, nei vecchi quartieri divenuti desueti come un quartiere di scavo a Pompei. Ritrovare sul filo di una memoria istintiva la animazione di quelle strade, i negozi nell’ombra ora vuota degli anditi e delle porte, la gente nei costumi del tempo dei Puri. Non importa per le nuove regole dei fanatici: i manichini femminili ricoperti di veli, la cacciata di tutti i ginecologi maschi dagli ospedali e dalle cliniche, le botteghe di barbieri e pettinatrici sbarrate, la polizia della virtù che gira instancabile le strade alla ricerca di impudichi e reprobi… Sì, legge e forza per creare un uomo nuovo, il progetto classico dei totalitarismi. Non importa tutto questo, se mai riuscissimo ad essere lì: gli uomini sono sempre gli stessi, li ritroveremmo come si ritrova una rima. Tempo passato: ci si sente più grandi, la vita vecchia come una infanzia del mondo.
La modernità
Il califfato, che resta per molti politici occidentali e studiosi una accolita di banditi selvaggi, in realtà è terribilmente moderno, nel senso che non cresce più secondo regole e misure umane ma come una sorta di insetto gigantesco. La storia umana recede per lasciar posto a questa meccanica demoniaca. Ci resta, flebile, la speranza che la storia torni poi, come è accaduto in passato, alla norma, al suo equilibrio. Il segreto rimedio sta nel fatto che la sofferenza genera forze più alte, risanatrici.
Domenico Quirico, La Stampa 28/6/2015