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 2015  giugno 29 Lunedì calendario

“DA VICE POSTINO A PADRONE DEL TOUR” GIMONDI, CINQUANTA ANNI DOPO

Sono passati 50 anni da quel trionfo inatteso al Tour de France 1965. Che Felice Gimondi, allora 22enne, non doveva nemmeno correre. Era neoprofessionista e aveva già fatto il Giro, aiutando il capitano Adorni a vincerlo.
Ma proprio alla vigilia della corsa francese Battista Babini, gregario di Adorni, fu colpito da una forma di paratifo e diede forfait.
Gimondi, era proprio destino...
«Mah, secondo me alla Salvarani videro che al Giro ero andato bene, arrivando terzo, e pensarono di mandarmi al Tour».
È vero che avrebbe dovuto fare solo poche tappe?
«Mi dissero: vai, cerca di aiutare Adorni, dai tutto fino al giorno di riposo e poi torni a casa».
E lei che cosa rispose?
«Che dovevo chiedere a mio padre, perché lavoravo con lui in una ditta di trasporti, facevo la manutenzione ai camion».
Ma non aveva un altro lavoro?
«Sì, ero vicepostino di mia madre a Sedrina, andavo su e giù tutto il giorno in bicicletta per le frazioni intorno. È anche così che sono diventato corridore».
Però al Tour non si può dire di no.
«Mio padre mi diede il permesso e così iniziò l’avventura. Mi dissi: provaci e, se va bene, al ritorno dai le dimissioni da postino e fai solo il corridore».
Il Tour cominciò subito bene...
«Ero giovane, avevo coraggio e un po’ di sfrontatezza. Allora non c’erano le radioline con le ammiraglie, si andava a istinto e si era padroni del proprio destino. Prima di partire mi scrissi sul guantino di destra i nomi dei velocisti più forti e sul sinistro i favoriti per la classifica».
Fra i quali non c’era per infortunio Anquetil, vincitore della ultime 4 edizioni. Chi era favorito?
«Raymond Poulidor, l’eterno secondo, poi Adorni e Motta».
E lei come riuscì a batterli?
«Mi diedero molta libertà anche per togliere pressione al mio capitano Adorni e far lavorare le altre squadre. Nella 3ª tappa staccai Darrigade su un cavalcavia e presi tre maglie: gialla di leader, verde degli scalatori e bianca dei giovani».
Come Nibali al Tour 2014. Poi?
«Poulidor vinse la cronometro e poi anche sul Mont Ventoux, ma io rimasi in maglia gialla».
E Adorni? Non era tra i favoriti?
«Fu costretto al ritiro dopo una decina di tappe per problemi fisici. Così fu lui, e non io, a tornare a casa in anticipo».
Gimondi, quando capì che quel Tour avrebbe potuto vincerlo?
«A 5 tappe dalla fine c’era una cronoscalata ad Aix Les Bains. Andai a vedere il percorso la notte prima, di nascosto, e poi ancora la mattina della tappa. Così decisi di mettere dietro i rapporti 17, 18 e 19, non ne avevamo dieci come le bici di oggi. Partii con il 19, ma dopo un terzo di gara perdevo già 13” da Poulidor. Allora scelsi il 18, un po’ più duro, ma mi si ruppe. Che fare? Non avevo scelta e azzardai il 17, il rapporto più faticoso. Ma così vinsi la tappa».
Era fatta per la vittoria finale?
«No, mancavano ancora 4 tappe e l’ultima era un’altra cronometro, con arrivo al velodromo del Parco dei Principi di Parigi. Che emozione quando entrai in pista, fra tante bandiere italiane. Vinsi anche quella crono e fu il trionfo. Ricordo il giro d’onore con Poulidor e Motta, finiti sul podio dietro di me».
Re di Francia a 22 anni, al debutto come prima erano riusciti solo Coppi e Anquetil: nel ciclismo moderno potrebbe succedere?
«Non credo. I corridori moderni sono più preparati, ma maturano più tardi, a 28-29 anni».
Che cosa la emozionò in particolare di quel Tour de France?
«Ricordo che mio padre venne in Francia senza dirmelo, perché aveva paura di disturbarmi. Così una sera lo vidi per caso seduto su un gradino, tutto solo e spaurito, davanti al nostro hotel. Povero papà, mi voleva bene. Ci abbracciammo e scoppiammo a piangere».
Al Parco dei Principi fu un’apoteosi e molti tifosi la paragonarono a Coppì, come dicevano loro.
«Sì. Uno lo ritrovai anni fa a Parigi, andando alla presentazione di un Tour. Viveva in Francia ma mi riconobbe e mi chiese il mio indirizzo in Italia. Così mi inviò il biglietto che suo padre gli aveva comprato per venire quel giorno del Tour 1965 a Parigi: allora aveva solo 6 anni. Mi commosse. Se tornassi indietro avrei ancora più attenzione per i tifosi, perché quelli del ciclismo sono davvero unici».
Che cosa crede che potrà fare Nibali al prossimo Tour?
«Spero bene, anche perché un po’ mi assomiglia. È completo, ha cuore e fantasia, sa improvvisare e ricorda un po’ i corridori di una volta, non come certi suoi rivali che sembrano dei computer e non entusiasmano nemmeno quando vincono».
Ma al ciclismo di oggi che cosa manca dei suoi tempi?
«Troppi corridori non hanno inventiva né coraggio, poi non c’è più rispetto per la tradizione e per le corse che hanno fatto la storia. Ma soprattutto mi manca... Merckx, un fenomeno e un grande professionista. Senza Eddy avrei vinto molto di più, ma vi immaginate che cosa sarebbe oggi il ciclismo con in gruppo uno come lui?».
Giorgio Viberti, La Stampa 29/6/2015