Stefano Caselli, il Fatto Quotidiano 29/6/2015, 29 giugno 2015
MASSIMO ZAMBONI: «MIO NONNO UCCISO DAI PARTIGIANI, MA LA STORIA NON SI PUO’ RISCRIVERE»
La memoria si può toccare. Basta tornare, interrogare un luogo, fingere di ascoltare una storia raccontata da occhi immaginari incastrati in una pietra, un campo, una cascina. Occhi che hanno visto e restituiscono. La memoria è un sapore, a cui non sai dare un nome ma che riconosci in qualche luogo di te. La memoria è un suono, magari irriproducibile eppure evocativo. E quando il suono si fa eco, nulla può sradicarlo dalla tua storia, anche quando il suono di uno sparo vibra fino alle falangi, arriva a una tastiera e si distorce nel suono elettrico di una chitarra.
L’eco di uno sparo (Einaudi) di Massimo Zamboni – storico chitarrista e compositore dei Cccp e dei Csi, forse le band più influenti del rock italiano degli ultimi 30 anni oltre che scrittore – è tutto questo: corpo e sangue di memoria, storia familiare, romanzo di formazione. O meglio, un vuoto di memoria riempito. La storia del nonno di Massimo, Ulisse, gerarca fascista, ucciso dai Gap nel 1944. Uno sparo nella bassa padana che risuona per 17 anni, riesplode a Reggio Emilia nel 1961, detona alle spalle del capo partigiano che fece fuoco su Ulisse. Lo uccide l’ex compagno che partecipò insieme a lui all’uccisione di Ulisse.
Una storia taciuta – la prima – e una storia collettiva, la seconda. Zamboni ricostruisce entrambe e le riannoda alla sua, per trasformarla in una storia universale: storia di guerra, dove i buoni non sono cattivi e i cattivi non sono buoni.
“L’Eco di uno sparo” parla di conciliazione, ma non dà pacche sulle spalle. La rima è con lacerazione. Come stanno insieme le due cose?
Vanno di conseguenza. Viviamo in un Paese non conciliato quando si parla di guerra civile. Abbiamo attestato a grandi linee dove stava la ragione, ma sappiamo che una parte della popolazione non lo accetta ancora. Durante una presentazione a Parma una signora è sbottata dicendo che “fascista” e “buono” non possono stare nella stessa frase. È vero, lo so, ma o siamo capaci di uscirne o tutte le parole perderanno significato. Occorre un alfabeto nuovo. La parola conciliazione non può prescindere dal fatto che in Italia non c’è mai stata confessione. Quelli che erano colpevoli il 24 aprile del ’45 si sono cambiati la giacca e hanno occupato gli stessi luoghi che occupavano prima. E da lì non li ha più scalzati nessuno tranne casi molto sporadici. Conciliazione senza confessione è impossibile. Dopo 70 anni dobbiamo occuparci noi, che non c’eravamo, di questa narrazione. Possiamo permettercelo. Non ho mai provato desiderio di vendetta per chi ha ucciso mio nonno, poi sono passato dalla parte del nemico agli occhi della mia famiglia… e solo adesso capisco quanto sia stato difficile per mia madre accettarlo.
Lei però non scrive mai “fascista buono”…
No. Ma questa era la leggenda sulla quale si basava la solidità del ramo materno della mia famiglia. “Mio nonno era un fascista però era buono ed è stato ucciso per errore”. No. Era un fascista, probabilmente era buono di carattere, così come era collerico. Ed è stato ucciso non per errore ma perché era un bersaglio molto facile quel giorno.
Lei scrive “il tempo non lenisce il dolore”…
Lo dice Emily Dickinson, una grande esperta. Ognuno di noi credo lo abbia sperimentato. Ciò che ti ha ferito non si alleggerisce con il tempo, anzi il passare del tempo può rafforzare il dolore perché lo rende sempre più lontano. Questo è quello che è successo al partigiano Robinson: all’apice del dolore l’unico scampo è stato uccidere il suo ex compagno di lotte, la figura forse più cara che aveva.
La guerra è finita a Piazzale Loreto…
Non poteva che finire così. Distruggere con violenza il corpo del nemico più grande, pensiamo anche a Gheddafi o Saddam, è inevitabile per quanto raccapricciante possa essere già il giorno dopo. Quel corpo significava molto di più dell’essere umano che lo abitava. Non voglio dire che sia stato giusto o ingiusto, ma come tale andava cancellato.
L’eco degli spari in Emilia è stato più forte che altrove. Perché?
Siamo una terra di attraversamento, l’unica regione che si estende da una parte all’altra dell’Italia. Chi si vuole muovere da qui deve passare, siamo abituati ai transiti. Le Langhe in Piemonte, che hanno avuto una storia partigiana anche più importante, sono una terra bellissima, ma di periferia. E poi l’emiliano è per sua natura caciarone, anche rozzo e violento, sanguigno quando vuole. Per questo c’è sempre stata molto più animosità. Non è un caso che Peppone e Don Camillo siano della Bassa. Qua deve essere tutto portato al massimo. In quale luogo del mondo c’è la stessa concentrazione di velocità e lentezza allo stesso tempo? Capacità di innovazione a livelli insospettabili e allo stesso tempo un culto così forte delle radici, della terra, del luogo piccolo.
70 anni non sono pochi, eppure questa storia ci attacca ancora al muro
Perché ci parlano della condizione umana come si è sempre espressa. Gli stessi episodi li puoi trovare nella tragedia greca o nella letteratura italiana classica..
Vent’anni fa, nel ‘95, usciva “Materiale Resistente” che è una straordinaria celebrazione musicale collettiva, il 50° anniversario della Liberazione. Per il 70° non è stato fatto. Colpa di un panorama musicale impoverito?
Negli ultimi 20 anni, se possibile, l’intelligenza, l’intellettualità è stata spinta ancora più ai margini. Nessuno se ne fa niente di una visione culturale, della nostra curiosità, anzi infastidisce. Basta guardare un qualsiasi programma di prima serata di 30, 40, 50 anni fa. La gente ascoltava Pasolini, Moravia… nell’unico canale in bianco e nero si parlava dei temi della nostra società. Oggi questo occhio obliquo capace di capire il presente è completamente esiliato.
Quanto c’è ancora nel rock italiano dei Cccp e dei Csi?
Siamo sorpresi dall’accoglienza quando suoniamo davanti ai ragazzini che hanno avuto i nostri album dai genitori. Colpisce, perché noi avevamo voglia di una lunga vita per le nostre canzoni ma non avremmo mai lontanamente supposto che sarebbero durate così a lungo.
Anche senza Giovanni Lindo Ferretti sul palco…
Gode di buona salute e fa le cose che gli piacciono….
C’è chi si è stupito, anni fa, della sua conversione “ratzingeriana”. Eppure mi pare di ricordare che nel 1989 disse, a proposito della Fatwa contro Salman Rushdi, che “col sacro non si scherza”. Me lo sono sognato?
Si si, lo disse. Poi si scusò, ma lo disse. Lui è sempre stato quello, nessuna conversione. Anche nelle prime canzoni dei Cccp c’era Libera me Domine. L’immaginario di Giovanni è quello, vive tra i monti ed è giusto che sia così.
In un certo senso avete recuperate la radice entrambi…. Vi intendete meglio adesso che prima?
Ora ci conosciamo molto bene anche se non ci frequentiamo. Prima ci conoscevamo peggio e ci frequentavamo di più. Ha apprezzato molto il libro, ci conosciamo, capiamo le ragioni l’uno dell’altro.
Tornando al libro, com’è stato possibile tanto riserbo?
Nelle famiglie non si parla. Si vive, si commercia, si mangia, si fanno i figli, ma non si parla. A me sembra incomprensibile accontentarsi di non sapere ciò che è stato prima, però mi rendo conto che lo fanno in tanti. Un motivo ci sarà.