Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  giugno 28 Domenica calendario

DALLA FRANCIA AL KUWAIT, IL MONDO DI FRONTE ALLA SFIDA SALAFITA

«La vecchia equazione il nemico del mio nemico è amico mio ha generato un mostro». Quando nell’aprile 2011, il giornalista e volontario italiano Vittorio Arrigoni fu strangolato da due jihadisti nella striscia di Gaza, «avevamo la certezza racconta un agente dei servizi segreti italiani che il movimento salafita stava uscendo dagli schemi tradizionali che in qualche modo noi occidentali consideravamo ancora gestibile». Per arrivare a comprendere l’Isis e i gruppi salafiti che si riconoscono nello Stato islamico e soprattutto per individuare gli strumenti per combattere la minaccia globale bisogna fare un salto indietro agli anni Ottanta.
ANNI OTTANTA
L’Unione sovietica aveva invaso l’Afghanistan e gli Stati Uniti arruolarono e armarono un esercito di crociati islamici per cacciare il comune nemico comunista e infedele. Bin Laden fu il più noto dei leader di quei combattenti che a conflitto terminato tornarono alle loro case in giro per Medio Oriente e Nord Africa. Non erano mercenari tradizionali. Avevano un obbiettivo chiaro, sostiene la ricercatrice Loretta Napoleoni: «Scatenare una jihad rivoluzionaria nell’intero mondo musulmano al fine di espellerne i governi filo-occidentali». Per i leader religiosi salafiti (fondamentalisti sunniti) bisogna ristabilire il «vero Islam» con il totale rispetto del Corano e delle scritture, la Sunna, del Profeta Maometto. È chiaro, il grido di guerra con cui, l’altro giorno, gli imam dell’Isis esortarono i loro seguaci a trasformare questo periodo di Ramadan «in un tempo di calamità per gli infedeli...gli sciiti e gli apostati musulmani».
L’AUTOCRITICA DELLA CIA
L’Intelligence Usa, Cia in testa, ammise dopo gli attentati alle Torri Gemelle di non aver valutato la minaccia che arrivava da al Qaeda. C’è da pensare che il potenziamento della sezione Medioriente dell’organizzazione spionistica non abbia funzionato se c’è chi, nel mondo dell’Intelligence, sostiene che l’apparizione di Isis abbia sorpreso tutti. Eppure il jihadismo salafita dopo aver operato in Afghanistan ha partecipato alla caduta dello Yemen del sud socialista prima di spostarsi nel Caucaso e in Cecenia. Con sigle diverse ha cercato di minare la stabilità dell’Algeria e della Libia prima di affrontare l’Iraq e la Siria. È convinzione di quasi tutti gli analisti occidentali che per fermare l’avanzata di Isis non sono sufficienti né droni, né bombardamenti. Nel 2009, a Gaza, le forze di sicurezza di Hamas uccisero 28 jihadisti dopo che il loro leader Abdel Latif Moussa aveva dichiarato il califfato islamico. In Egitto il presidente-generale Sisi non riesce a neutralizzare i jihadisti nelle loro basi nel Sinai. Nonostante l’azione dura delle forze di sicurezza tunisine, i jihadisti sono riusciti a compiere due massacri nel giro di pochi mesi.
La repressione è insufficiente. È necessario, ammettono tutti, bloccare i finanziamenti e le complicità di quei paesi della regione che si servono dei salafiti per fini politici. Oltre ai soldi che arrivano all’Isis dai proventi del petrolio dei pozzi sotto il loro controllo (ma perché non agire contro chi compra?) non è un mistero che i jihadisti possono contare su una rete internazionale di piccole organizzazioni. È da queste centrali che i terroristi ricevono il loro supporto logistico (biglietti aerei, documenti falsi, denaro) e, spesso, armi facilmente reperibili se uno ha soldi.