Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, il Fatto Quotidiano 28/6/2015, 28 giugno 2015
«SE GLI ITALIANI PENSANDOMI SI SONO ADDORMENTATI FELICI, IO SONO CONTENTA»
[intervista a Barbara Bouchet] –
Con molti viaggi, cento film alle spalle e le ascendenze geografiche frullate in uno slang da commedia: “A un certo punto si sono accese tutte luci”, Barbara Bouchet non si pente di averne interpretate tante: “Dopo quelle sexy il cinema non si è più fidato di me e non mi ha dato ruoli drammatici perché dalla serie B riemergere è difficile. Mi offrivano solo di spogliarmi. Di mostrare il mio fisico. Di recitare ancora da simbolo del sesso. Era ridicolo. Decisi di smettere a 39 anni e dissi definitivamente basta con il set a 40”. Si diede alla ginnastica, cambiando professione: “Dopo una vita in movimento, ferma non avrei potuto rimanere. Nelle palestre ero stata fin dai 14 anni. All’epoca non avevo i soldi per pagarla, ma una signora che mi iscrisse poi ai primi concorsi di bellezza mi permetteva di allenarmi con lei. Erano poco più che cantine frequentate da maschi in fila davanti ai bilancieri e quando Jane Fonda iniziò con le lezioni di aerobica in tv mi ricordai di quell’esperienza e decisi di imitarla”. Chiuse una porta: “La critica ci stroncava, i Festival non ci invitavano mai e capii che era arrivato il momento per lasciare” e ne aprì altre: “Ogni età ha i suoi tempi. Il corpo ti segnala ogni caduta”. Oggi fa teatro: “Con Corinne Clery e Iva Zanicchi abbiamo il calendario pieno fino ad aprile del 2016” e non si guarda indietro: “A quel ritmo, comunque, non avrei potuto continuare. Nel solo 1972, per dire, avevo girato 8 film. In alcuni titoli cambiati successivamente rifiuto persino l’idea di aver recitato: ‘Io questo non l’ho fatto’, mi dico”.
A 71 anni, Barbara Bouchet non ha rimpianti?
Qualche film avrei potuto evitarlo, ma dire di no era difficile. Non esiste nulla che spaventi l’attore più della sosta forzata. Comincia ad avvertire l’ansia, a temere che non lo chiamino più e quando arriva una proposta, accetta prim’ancora di aver detto buongiorno.
Lei ha sempre detto sì a prescindere?
Neanche un po’. Antonioni mi avrebbe voluto per Blow-up. Ero a Cannes, mi fece avvicinare da Carlo Ponti e mi convocò d’urgenza a Londra. Non sapevo neanche chi fosse Antonioni, ma ero un po’ nauseata dall’America e accettai di incontrarlo.
Appuntamento al buio?
In un albergo, senza certezze: “Sarà il regista a decidere”, mi aveva detto Ponti. A Londra pioveva. Michelangelo era appoggiato al bow-window. Mi guardò distrattamente, poi sibilò “I’m very tired” e mi congedò. Risposi “Thank you very much” e me andai per sempre. Se era molto stanco lui, figuriamoci io.
Che carattere.
Sempre stata sicura di me stessa. Non mi vuoi? Addio. Quella volta per fortuna, prima di essere ignorata da Antonioni, avevo incontrato il produttore Charlie Feldman all’aeroporto. Mi aveva chiesto se volessi recitare in 007 – Casino Royale: “Se Antonioni le dice di no, mi telefoni”. Feldman aveva fama di personaggio ambiguo, ma l’idea di far parte di un cast stellare mi lusingava. Chiamai il mio agente a Los Angeles. Fu scettico: “Ti ha preso in giro, stanno provinando migliaia di ragazze”. Allora lo sostituii con un mediatore di New York: “Questo contratto lo fai tu”.
Casino Royale fu l’ultimo film da produttore di Feldman in lotta con la United Artists. Sul set molte pause e tantissimi litigi. Woody Allen sintetizzò felicemente: “È un manicomio”.
Un film complicatissimo. Lungo, estenuante, pieno di attriti anche personali. Peter Sellers aveva dichiarato guerra al mondo. Litigava con John Huston, Orson Welles e con Feldman. Perdendo tempo, soldi e costruendo set ricchissimi nei quali non avremmo mai girato, si avvicendarono 5 diversi registi. A lungo andare mi immalinconii. Passavo le giornate nella roulotte a deprimermi, ingrassare e mangiare biscotti al burro. Ci lasciai anche un dente, su quei biscotti.
Però conobbe David Niven.
Un uomo meraviglioso. A salvarmi fu lui. Mi vide al limite e mi disse: “Tu hai bisogno d’aria”. L’unica volta che il sole si era veramente fatto strada tra le nuvole ne avevo approfittato per andare in costume da bagno ad Hyde Park. Mi avevano arrestata. Niven mi offrì di più: “Vieni a Cap Ferrat, ho una bellissima casa, se proprio dovesse andar male e l’aereo precipitasse, potremmo consolarci pensando che la disgrazia valga per entrambi”. Non me lo feci dire due volte. Tra i tanti, forse Niven è la migliore persona che abbia conosciuto nel cinema.
Pensava al cinema fin da piccola?
Ci arrivai per una serie di circostanze fortunate. Sono nata in Cecoslovacchia, mio nonno gestiva un cinema. Durante la Seconda guerra mondiale arrivarono i russi e ci cacciarono. Con mio padre, mia madre e le mie sorelle ci rifugiammo in un paesino della Bassa Baviera, da due zie. Vita di fattoria. Dopo qualche anno di difficoltà, mio padre trovò un lavoro stabile a Monaco di Baviera, ma sul più bello venne fregato da mia madre.
Fregato in che senso?
Grazie alle suggestioni che una cartomante le aveva messo in testa fin da bambina: “La creatura attraverserà il grande mare”, mia madre aveva mosso il mondo per avere una possibilità nella terra delle grandi opportunità. Si organizzò, cercò un finanziamento chiese aiuto ad alcuni amici tedeschi e poi, quando arrivò la lettera, convinse mio padre ad andare in America.
Che lettera arrivò?
Di un coltivatore di cotone californiano. Lui avrebbe pagato il viaggio, i miei avrebbero lavorato per lui fino a estinguere il debito. Vivevamo nel nulla, in un cerchio di case circondato dal deserto.
Esperienza difficile?
Atroce. Eravamo liberi. Arrivavamo da una grande città e ci ritrovammo praticamente schiavi nella vallata più calda del pianeta. Risanammo il debito e ci trasferimmo a San Francisco. Dopo averle tanto rinfacciato il trasferimento in America, papà, fotografo che era stato al fronte e allora vivacchiava con i matrimoni, si trovò ad affrontare altri problemi. I soldi erano pochi, non potevamo permetterci gli agi dei quartieri ricchi. Finimmo prima a Mission District, la zona dei messicani, dove i compagni di scuola per familiarizzare mi attaccavano il chewing-gum nei capelli biondi e poi in quella dei neri. Ogni giorno una lotta. Bulli e bulle volevano sempre fare a botte con me: “Are you calling me?“ dicevano fuori dalla scuola e giù colpi. In una di queste sfide, tra un pugno e uno schiaffo, quasi mi tolsero un occhio con un anello. Ho ancora il segno.
Il primo ingaggio?
Vinsi un premio come Miss China beach e mi ritrovai assoldata per una pubblicità delle Newport cigarettes. “Sai fumare?”, mi dissero e io bluffai senza ritegno. Una volta in mongolfiera, l’inganno mostrò qualche crepa. Iniziai a tossire. Dovettero interrompere le riprese. Erano arrabbiatissimi. Intanto la mia famiglia non aveva retto ai tanti cambiamenti. Mio padre e mia madre si separarono. Io mi sentii finalmente libera di seguire l’istinto. Mi iscrissi alla Hollywood professional school. Richard Crenna, George Segal, Samantha Eggar. Eravamo tutti nello stesso gruppo di attori. Piovvero piccoli ruoli e a 22 anni, anche la grande occasione con Otto Preminger.
Prima vittoria, il film con John Wayne e Kirk Douglas, la vedeva nel ruolo di una moglie infedele.
Assistetti a molti altri provini. Le attrici che venivano scartate piangevano a dirotto. Io e Preminger parlavamo la stessa lingua e un giorno, venendomi vicino, fece un gesto di complicità: “Ora che hai visto cosa non voglio, sei in grado di fare il contrario?”. “Ci provo, ma se sbaglio tu non urlarmi contro”. Dovevo ballare intorno a un palo. Lo convinsi. E insieme al ruolo in Prima vittoria venne anche un contratto di esclusiva di 7 anni.
Una svolta.
Una condanna. Avevo uno stipendio settimanale, ma senza volerlo ero diventata una proprietà di Preminger. Dopo il primo film però, ruoli per me non sembravano esserci più. Aspettai invano. Poi venni a sapere che avevo altre offerte, ma che Preminger aveva detto no perché, come ribadì anche a me, non aveva bisogno di soldi. Mi arrabbiai e lo raggiunsi a New York: “Qui qualcosa non va, io non sono una merce, qui perdo il tram”, gli dissi. Non so come riuscii a sciogliere il contratto. Ad altre attrici era andata decisamente peggio. Cosa significasse gabbia dorata avevo avuto il tempo di capirlo.
Ne firmò subito un altro?
Da un tipo senza arte né parte. Mi portò a Parigi. Poi a Cannes: “Ho prenotato una suite”. La sua idea era quella di dormire insieme. Gli feci capire che non era il caso, ma come da copione, una volta arrivati l’unica stanza disponibile era una matrimoniale. Salimmo. C’era un’anticamera abbastanza grande. Presi un cuscino e una coperta e gli dissi: ‘Tu dormi qui’. Poi chiusi la porta. Ho avuto mille tentazioni, ma non mi sono mai venduta. Hanno provato a regalarmi ville a Bel Air, mi hanno fatto avvicinare da legali della Paramount che altro non erano che emissari della mafia, mi hanno minacciata: “Se non ti concedi ti distruggiamo la carriera”. Magari avevo paura, ma mi sono sempre sentita un’anima libera.
L’Italia per lei è stata importante.
Dopo il litigio con l’avvocato di cui vi parlavo, spaventata, mi rifugiai a New York convinta che avrei cambiato mestiere e identità. Vivevo in uno scantinato, non avevo un dollaro e sentivo un freddo cane. Dal nulla arrivarono a trovarmi due italiani. Piero Zuffi e Roberto Loyola: “Che strano trovarla qui, ma lei non fa l’attrice?”. “Facevo”, risposi. Mi proposero Colpo Rovente, un poliziesco con Carmelo Bene scritto da Flaiano. Loyola era un tipo strano. Uno spregiudicato che trafficava con il cinema e anche con le armi: “Cambieresti nome e colore di capelli?”. “Nome mai, sui capelli possiamo discutere”. Accettai la parte. Era un cinema avventuroso. Si girava nel caos. Quando Loyola iniziò a infastidirmi: “Io sono il tuo Carlo Ponti, vuoi essere la mia Loren?”, lo misi in fuga telefonando a un vecchio fidanzato, Franco Rapetti, conosciuto in Costa Azzurra all’epoca in cui Gigi Rizzi e i suoi amici dominavano la scena. Loyola si innervosì. Era pedante. Si presentava sul set: “Vorrei ricordare alla signora Bouchet che deve prepararsi meglio sulle sue battute”. “E io vorrei ricordare al produttore che deve sparire altrimenti scordo anche il poco che so”. Non si fece più vedere.
Come andò la sua storia con Omar Sharif?
Ci incontrammo a Cannes. Ero una ragazzina. Lui un uomo affascinante un po’ troppo dedito al Bridge e a impartire ordini: “Torniamo a Parigi, ci sposiamo e tu arredi la casa. Mi raccomando, niente quadri e niente oggetti sui mobili”. Resistetti poco, poi senza matrimonio tornai a Roma.
Fernando di Leo, Lucio Fulci, Mauro Bolognini, Luciano Martino, Luciano Salce. Ha lavorato con tante persone.
Fernando era un grande signore e un grande innovatore. Gli devo qualcosa. La scena del ballo scatenato di Milano Calibro 9 aiutò a farmi conoscere.
“Se gli italiani pensandomi si sono addormentati felici, io sono contenta”. La frase è sua.
Confermo. A farli sognare eravamo almeno in due. Io ed Edwige Fenech. Era un’industria in grande salute, il cinema italiano. Un’industria da 300 film l’anno.
Mostrarsi la turbava?
Neanche un po’. Ho sempre tenuto separata la vita privata da quella pubblica. Forse turbò mio figlio. Alessandro, che oggi è un cuoco celebre, allora era solo un bambino. I genitori dei suoi compagni parlavano con i figli e lui tornava a casa preoccupato: “Mamma, i miei amici dicono che ti hanno visto con il seno nudo”. Io ero tranquilla: “Caro, siamo nati tutti nudi, Gesù ci ha fatto così. Tu digli che tua madre si può permettere di mostrarlo e che sei curioso di sapere se le loro mamme possono fare lo stesso”.
Come vanno i rapporti con Quentin Tarantino?
Sono sempre più controversi perché è vero che Quentin ha rivalutato la commedia sexy e mi ha fatto felice, ma è altrettanto vero che è un gran maleducato e una gran sòla.
Addirittura?
È inaffidabile. È un bambino. So quel che dico. La storia parte da lontano. Il primo a tentare di riunirci fu un bravo artista italiano, Francesco Vezzoli, uno che pur essendo grande, ha la rara grazia di chi non si sente nessuno. Il contrario di Quentin. All’epoca non lo conoscevo. Voleva fare il remake di Caligola di Brass e propose il ruolo a Tarantino. Lui fu secco: “Lo faccio solo se Barbara interpreta mia moglie”. Arrivammo a Los Angeles io, Helen Mirren, Adriana Asti, Benicio del Toro. Tutti ad aspettarlo. Lui fece chiamare dalla segretaria: “Il signor Tarantino non se la sente”. Sosteneva di sentirsi grasso. Fuori forma. Fu solo la prima di tante altre sòle. Ve ne racconto un’altra.
Prego.
Gli viene in mente di dedicarmi una retrospettiva al Beverly Hills Theatre con tutti i miei film. Mi sento onorata. Lo raggiungo. E ci casco un’altra volta. La prima sera va benissimo. Lui cinguetta, è complimentoso, affettuoso. Poi inizia a sparire, a mandare Joe Dante al suo posto a presentare i film: “Pensa, Barbara – mi dice Dante – non lo vedevo da un anno” e a comportarsi da Quentin. “Excuse me honey“, dice e si dilegua. L’ultima volta a Venezia. Appuntamento in un club privato. Lo aspetto fino alle due di notte. Poi chiamo l’assistente e chiedo lumi. Lei minimizza: “Non so dove sia, ma tu ti diverti, no?”. Le rispondo a brutto muso: “Tu non hai capito. Non vado da sola a divertirmi e men che mai in un night club”. Se mi telefona un’altra volta per un appuntamento non mi presento. Giuro. Ho conosciuto anche Scorsese. Ho recitato per lui in Gangs of New York. Altra storia. Altra pasta. Essere talentuosi non basta, a volte serve anche essere educati. Quentin possiede tante doti. Quella proprio non ce l’ha.
Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, il Fatto Quotidiano 28/6/2015