Cesare De Seta, la Repubblica 28/6/2015, 28 giugno 2015
LE CORBUSIER L’ARTISTA CHE NON VOLEVA ESSERE SOLO UN ARCHITETTO
Nel Novecento pochi sono gli architetti, anche pittori e scultori la cui opera supera la soglia del dilettantismo ed è divenuta parte essenziale della loro creatività con esiti che non sono impari al ruolo che essi hanno assunto nella loro privilegiata attività. Certamente Peter Behrens, Le Corbusier ed Alvar Aalto appartengono a questa ristretta compagine: per loro pittura e scultura furono processo — sincrono e unitario — all’arte del costruire. Tra chi operò contemporaneamente sul tavolo da disegno e sulla tela, Le Corbusier è certamente il più complesso, il più problematico e il più intelligente costruttore di una nuova via della forma ove si disfa l’antico steccato tra le arti: infatti, a differenza di Behrens, Le Corbusier dipinse fino agli ultimi giorni della sua vita.
L’unità delle arti fu uno dei cardini dell’Avanguardia storica — dal Futurismo a De Stijl, all’Espressionismo — e certamente il giovane Charles-Edouard Jeanneret (1887-1965) di questo clima fu partecipe sia pur con il sussiego della sua personalità scontrosa e poco incline a riconoscere i propri debiti. Ripeterà Le Corbusier, citando Cézanne, «tutto è sfere e cilindri». E di qui bisogna partire per trovare il germe primario del suo fare pittura e del suo fare architettura. Il giovane inizia a dipingere in modo sistematico a partire dal 1918, interrompendo o rallentando solo per ragioni contingenti, perviene ad una formulazione teorica affatto originale: nel 1921, stagione tra le più dense per la qualità dei risultati raggiunti, in un articolo intitolato Le purisme , pubblicato su L’Esprit Nouveau, rivista fondata e diretta con l’amico Amédée Ozenfant, scrive testualmente: «Nous avons conclu... à la nécessité de la peinture architecturée ». Con questa dizione, assunto il nome di Le Corbusier, intende una pittura che nasce da una logica formativa che è quella dell’architettura. Una pittura che abbia in sé una sua ragione che sfugge all’arbitrio dell’individualità, che possa esibire una ragione della sua stessa forma.
La grande retrospettiva Le Corbusier. Les Mesures de l’homme, Centre Pompidou (fino al 3 agosto), a cura di Frédéric Migayrou e Olivier Cinqualbre offre, in dieci sezioni tematiche, una splendida selezione di circa 300 pezzi tra disegni, carnet de voyages, dipinti, sculture, modelli, foto e filmati rari che partono dagli esordi per approdare alla maturità. Alla fine della sua vita, nel 1965, con una certa amarezza, Le Corbusier scriveva: «Non mi si conosce che come architetto non mi si vuole conoscere come pittore e tuttavia è per il canale della mia pittura che io sono arrivato all’architettura ». Le tele del periodo 1918-28 appartengono alla stagione purista di cui con Ozenfant fu protagonista: in mostra i dipinti hanno largo spazio fondatamente, con in testa Le Bol rouge ( 1919) fino alla serie delle “nature morte” e almeno fino al ’22 l’influenza di Picasso e Juan Gris è molto forte. I curatori hanno avuto l’intelligenza di mettere in luce i tracciati regolatori che sottendono queste tele e, accanto, la facciata di Villa Schwob (1921) da cui si deduce la rilevanza che essi avranno in tutta la sua opera. Un’intenzionalità metodica quasi ossessiva perché lo spazio è costituito da elementi semplici e complessi: l’artista li seleziona, li regolarizza, crea una gerarchia tra essi e li dispone in assemblaggi; allo stesso modo l’architetto organizza il tipo edilizio, la struttura e la tipologia urbana. Dal Dom-Ino (1914-15) — struttura modulare in cemento armato per la produzione in serie di case — alla Maison Ouvrière, dalla Maison Monol alla Citrohan, dalla Ozenfant al quartiere di Pessac la ricerca architettonica sistematica ed organica corre parallela alla pittura: è, propriamente, tutt’uno con la pittura. Dipingere, in effetti, equivale a creare forme in uno spazio piano; le sue tele sono costruite con elementi tipo, di scala maggiore e minore, con un uso perfettamente gerarchizzato del colore il quale non è solo un elemento decorativo, ma la ragione stessa della sua architettura “picta”. Dipingere per Le Corbusier equivale a creare delle costruzioni, composte secondo un principio che è quello della “formation” del tutto opposto a quello della “deformation” cubista. I suoi quadri puristi sono un repertorio di “contenants” (bottiglia, bicchiere, calice, vaso, caraffa, sifone) a cui si aggiungono di volta in volta forme aperte: il violino, la chitarra e la sua ombra autonoma, il libro, il piatto, le pipe, i dadi domino, la scatola di fiammiferi chiusa e aperta.
Dal 1928 in poi principia il tema delle femmes ove Léger e Picasso sono gli inequivocabili punti di riferimento, così come Juan Gris e Ozenfant restano i dioscuri della più compiuta e convincente produzione purista. Non che poi Le Corbusier non sia più pittore, ma la scultura e la policromia prende il sopravvento e apre le porte ad un altro sentimento della forma che poco ha a che fare con quell’idea di “peinture architecturée” da cui lui stesso si era mosso.
La straordinaria svolta si ha nel 1950 con la Cappella di Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp. E proprio Ronchamp mi pare l’esito più alto e solenne di questa michelangiolesca ambizione di costruire un’opera d’arte totale. Le Corbusier fu deriso e vilipeso per aver trasgredito i principi dei Ciam, i cinque punti dell’architettura da lui stesso istituzionalizzati, lo standard, il Modulor: cioè se stesso. Il maestro svizzero, che dal 1917 aveva eletto a sua patria Parigi, fu un uomo dall’ego smisurato e non esitò a proporre i suoi progetti a Mussolini e a Stalin, né negò la sua infamante collaborazione al regime di Vichy: polemiche ci sono state attorno alla mostra ma sono pretestuose perché non si giudica un artista per le sue gravi cadute. Le Corbu, come l’uccello caro a Baudelaire, ambiziosamente s’illudeva, sbagliando, che se i regimi totalitari avessero accolto le sue proposte queste si sarebbero rivoltate contro di loro. Non avvenne e non poteva avvenire, perché la politica segue leggi del tutto diverse da quelle delle forme.
C’è qualcosa di profondamente drammatico nella vita di Le Corbusier: visse il dramma di una generazione a cavallo di due spaventose guerre e ne visse tutte le contraddizioni, rispondendo con la sua “ricerca paziente”, fedele solo alla logica superiore delle forme dell’arte e a un concetto della natura che l’aveva visto partire dalle Alpi innevate del Giura per chiudere i suoi giorni in un piccolo Cabanon, sulla Costa Azzurra, dinanzi alla distesa del Mediterraneo casa madre di ogni europeo.
Cesare De Seta, la Repubblica 28/6/2015