Sergio Romano, Corriere della Sera 27/6/2015, 27 giugno 2015
QUANDO L’ASSE FRANCO-TEDESCO FUNZIONAVA GRAZIE ALL’ITALIA
Ho letto la sua risposta circa la presunta marginalità dell’Italia rispetto all’asse franco-tedesco. Oltre alle ragioni da lei addotte (tutte giuste) ce n’è un’altra. Francia e Germania sono cruciali non soltanto perché sono le più grandi, ma anche perché le loro posizioni sono normalmente così distanti che quando si avvicinano gli altri (Italia compresa) possono ritrovarsi nell’ipotesi di compromesso. Tuttavia la storia ci dice che si tratta sempre solo di un’ipotesi che per funzionare ha bisogno del contributo di altri. Tradizionalmente questo contributo veniva da tre «attori»: Italia, Belgio e Commissione. Perché quei tre? La Gran Bretagna si è marginalizzata e altri due potenziali «attori» (Spagna e Polonia) hanno un peso crescente, ma ancora modesto. Il Belgio ha quasi cessato di esistere e la Commissione è appannata, ma non scomparsa; tra l’altro c’è anche un nuovo attore potenzialmente utile nella persona del presidente del Consiglio Europeo. Herman Van Rompuy assolse questo compito egregiamente. Resta il fatto che il contributo dell’Italia, se sa giocare con intelligenza e soprattutto se la sua politica interna è credibile, continua a essere essenziale. Mi sorprende sempre che l’Italia non riesca a valorizzare il suo ruolo storico, in primo luogo con l’opinione pubblica nazionale; mi è capitato di chiamarlo «il complesso di Calimero».
Riccardo Perissich
Caro Perissich,
R iflessioni non diverse dalle sue sono nella intervista che Joschka Fischer, ministro degli Esteri tedesco nel governo rosso-verde di Gerhard Schröder dal 1998 al 2005, ha dato ad Alessandro Cavalli per il n. 3/15 della rivista il Mulino. Interrogato sulla vitalità dell’asse franco-tedesco, Fischer ha risposto che il suo vizio, maggiore, in questo periodo, è l’esistenza di uno squilibrio fra lo stato di salute dei due Paesi: piuttosto buono in Germania, molto meno buono in Francia. Ma vi è, ha aggiunto, «Un elemento ulteriore. Nella relazione franco-tedesca c’è sempre stato un fattore di ri-equilibrio e l’Italia ha giocato un ruolo molto importante da entrambe le parti. Dagli anni dei governi Berlusconi, l’Italia ha perso questo ruolo ed è un peccato, non dico un disastro ma quasi. Ci mancano la voce dell’Italia e la sua funzione ri-equilibratrice, una funzione molto importante nel binomio franco-tedesco e molto importante per l’intera costruzione europea. Ma gli anni di Berlusconi hanno interrotto il funzionamento di questo sistema».
Credo che Fischer abbia ragione. Berlusconi aveva bisogno della Lega, antenato di tutti i populismi euro-fobici, e non «sentiva» l’Europa. Credeva che la politica estera dell’Italia consistesse nella somma dei rapporti personali che il presidente del Consiglio sapeva intrecciare con i «grandi» del pianeta. Il suo ministro della Economia, Giulio Tremonti, e il suo primo ministro degli Esteri (Antonio Martino) consideravano l’Europa di Maastricht con fastidio se non addirittura con una pregiudiziale ostilità. Franco Frattini fu diligente, ma non aveva l’Europa nel sangue. Gianfranco Fini veniva da orizzonti culturali alquanto diversi. L’unico che avrebbe messo l’Europa al vertice delle ambizioni italiane fu Renato Ruggiero, ministro degli Esteri dopo le elezioni del 2001, ma capì che avrebbe fatto una battaglia solitaria e si dimise nel gennaio dell’anno seguente.
Dopo la caduta di Berlusconi, Mario Monti, Enrico Letta e Emma Bonino avevano tutte le qualità necessarie per fare una politica estera all’altezza delle tradizioni italiane, ma erano troppo impegnati a restaurare l’immagine dell’Italia e non avevano tempo per mediazioni creative come quelle ricordate da lei, caro Perissich, e da Joschka Fischer. Mi fermo qui. Sull’europeismo di Renzi aspetto qualche elemento in più.