Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  giugno 27 Sabato calendario

L’ITALIA DI PANATTA E DEI PICCOLI CAPITANI DEL LAVORO

[Intervista a Edoardo Nesi] –
Qualcuno era capitalista. Eccome se lo era, nell’Italia di quarant’anni fa raccontata con divertimento, trasporto e romanticismo da Edoardo Nesi in L’estate infinita (Bompiani). Un romanzo che racconta gli anni Settanta dal punto di vista della classe di padroncini e piccoli imprenditori che facevano marciare il Pil italiano come un treno, nonostante gli scheletri negli armadi della politica e il piombo dei terroristi. Dimenticate l’impegno, la rabbia, le lotte e l’alienazione della letteratura dell’età industriale (che però era quasi tutta riferita alla grande industria); qui, con una lingua che echeggia la favella toscana, lampeggia tutta la mitologia del decennio, i Ray-ban, le aragoste alla catalana, i tornei di tennis di Montecarlo, i concerti alla Capannina di Forte dei Marmi. E in controluce sfuma tutta la nostalgia di uno scrittore che allora aveva vent’anni, oggi ne ha 50, e dopo essere stato lui stesso imprenditore a Prato e avere vinto un Premio Strega, oggi è un deputato eletto nelle file di Scelta Civica (“Un’esperienza dadaista”), poi passato al gruppo misto, “dove invece mi trovo benissimo”.
Nesi, come mai nell’Estate infinita ha deciso di resuscitare il protagonista dell’Età dell’oro, l’imprenditore tessile Ivo Barroccai?
Mi rincresceva l’idea di avere raccontato la fine di una bella storia italiana senza averne raccontato l’inizio. Vede, il made in Italy non è fatto dai geni dell’impresa che ci vengono raccontati dai giornali e dalla Tv di oggi; il made in Italy è nato dalla qualità degli imprenditori e degli operai delle piccole aziende degli anni Sessanta e Settanta, prima che arrivasse la maledetta globalizzazione.
Ma perché era partito dalla fine?
Perché nella mia vita di scrittore tutto è partito dal disincanto degli anni Novanta. Trovavo terribile l’idea di essermi affacciato all’età adulta in piena crisi, l’esatto contrario di quanto aveva vissuto mio padre alla mia età.
Nel suo racconto degli anni Settanta tutto riluce d’oro, ma non c’è nemmeno un grammo di piombo. Non è una visione parziale?
Nel libro non c’è la politica, non ci sono le stragi, non c’è il terrorismo, è vero. Ma questo perché ho voluto raccontare dei personaggi che vivevano completamente al di fuori della politica, che conoscevano tutto dei campioni di tennis ma nemmeno sapevano chi fosse il presidente del Consiglio. Gente che per tutta la vita ha solo lavorato; poi sono arrivati i figli che se la sono goduta con le forzature e l’esibizionismo degli anni Ottanta. Ma quella è un’altra storia.
Non teme di essere tacciato di disimpegno?
No, anzi, mi pare di avere scritto un romanzo molto impegnato. Provare a raccontare oggi quella classe di persone che hanno costruito così tanto venendo dal nulla mi sembra un atto quasi rivoluzionario. Nessuna figura come quella del piccolo imprenditore è stata così poco capita nella nostra storia recente.
Immagino che la letteratura italiana di oggi le sembrerà un po’ troppo piagnona.
Sì. Ma sa, per qualche strana legge è più facile misurarsi con il male che con il bene. Come diceva Tolstoj, la cosa più difficile da raccontare è la felicità, ed è difficile motivarla, non farla sembrare una cosa leggera quando invece è l’esatto contrario. Inoltre, credo che la nostra letteratura viva un momento simile a quello del paese.
Un momento di profonda depressione.
Infatti. A un certo punto ho avuto la tentazione di aggiungere al romanzo un epilogo ambientato ai giorni nostri, poi mi sono accorto che sarebbe stato un errore clamoroso, perché io ho voluto raccontare uno spicchio della storia d’Italia intatto nella sua felicità. Osservarlo con gli occhi del presente l’avrebbe improvvisamente reso amaro, come quando ci si sveglia da un bel sogno.
Tutti gli amori del libro, più o meno clandestini, sono striati di maschilismo. Era un’età dell’oro anche per il sesso?
È probabile. Quella era l’era delle corse a cento all’ora in Vespa senza casco, dello spogliatoio del tennis club dove questi maschi scatenati, con la vitalità che gli arrivava dalla forza economica, si vantavano delle loro imprese sessuali, poco importa se vere o no. Però anche allora, quando dal sesso si passa ai sentimenti, gli uomini perdevano sempre dalle donne.
Vede tornare qualcosa di quell’energia nel renzismo di oggi? Possiamo tentare un’analogia tra la coppia Panatta-Bertolucci e la coppia Renzi-Boschi?
Ah, Ah Ah! Questo proprio no. La coppia Panatta e Bertolucci era il simbolo di un’Italia grandissima senza sapere di esserlo, un po’ indisciplinata però irresistibile quando ce n’era bisogno. Con quell’Italia nessun paragone è possibile.
Allora, da pratese, le chiedo qual è la sua valutazione del fiorentino Matteo Renzi e del suo ottimismo caricato a tweet.
Da pratese un po’ mi costa, ma devo dire che di Renzi ho una buona opinione, sta cercando di ridare all’Italia l’orgoglio del lavoro perduto. Però l’analogia si ferma lì, perché quel patrimonio ormai lo abbiamo perduto, gli ingranaggi si sono spostati in cielo, come diceva Malcolm Lowry.
Come pensa che i ventenni di oggi ricorderanno questi tempi, quando di anni ne avranno 50?
C’è un discrimine fondamentale di cui tener conto. Quando io avevo vent’anni, tutto mi sembrava possibile, noi ventenni non avevamo problemi a immaginarci qualsiasi futuro. Questo sentimento del futuro oggi si è perso completamente, divide le generazioni, e non è poco. Anzi, forse è tutto.
Nanni Delbecchi, il Fatto Quotidiano 27/6/2015