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 2015  giugno 27 Sabato calendario

L’INGEGNERE ITALIANO CHE HA CONQUISTATO ABBEY ROAD

[intervista a Luca Barassi] –
Sono le strisce pedonali più famose del mondo: le “zebre” che attraversano Abbey Road, finite sulla copertina del celebre disco dei Beatles. Turisti e fan di tutto il mondo vanno ogni giorno a fotografarsi nello stesso posto. Poi, attraversata la strada, lasciano una scritta, una firma sul muro degli Abbey Road Studios, gli studi discografici in cui i Fab Four registrarono quasi tutti i loro album.
Ora quel mitico tempio del rock ha chiamato un giovane italiano a dirigere una nuova iniziativa: l’Abbey Road Institute, scuola d’ingegneria del suono e produzione musicale. Luca Barassi, 35 anni, napoletano, si trova così ad amministrare e organizzare corsi di dodici mesi per i professionisti della musica di domani, con classi in acustica e audio ingegneria, teoria e produzione musicale, business e management del settore. Se i Beatles del domani avranno bisogno di uno studio, i tecnici del suono li avrà formati lui, insieme agli insegnanti e agli specialisti di Abbey Road.
Il modo in cui è arrivato a occupare un posto simile è la storia di uno dei tanti italiani emigrati a Londra in cerca di sfide e la testimonianza di come qui sia possibile affermarsi. «Non sono figli di musicisti, ma mio padre è stato un grande collezionista di vinili e mi ha trasmesso la sua passione», racconta Barassi. «Da ragazzo ho ricevuto in regalo una chitarra e il resto, in un certo senso, è venuto di conseguenza».
Cosa è successo dopo la chitarra?
«Ho imparato a suonarla e ancora di più mi sono interessato alla produzione del suono. Mi sono fatto un piccolo studio di registrazione in casa e da autodidatta sono diventato il tecnico del suono di un paio di gruppi rock napoletani che esistono ancora, i Radical Kitch e gli Slivovitz. Nel frattempo mi sono iscritto all’università, prima a medicina, poi a lettere, ma ho capito che non era quella la mia strada e così ho cercato uno sbocco professionale legato alla musica».
E questo l’ha portata a Londra...
«Sì, attraverso l’iscrizione al Sae Institute, la School of Audio Engineering, college privato con sedi in molti paesi, che ha a Londra la sua base. Ho passato così un anno di studio intensissimo e stimolante. E la Sae, quando mi sono diplomato con il massimo dei voti, mi ha offerto un lavoro, prima come supervisore dei corsi, quindi come docente a tempo pieno e successivamente come manager dell’intera scuola. Un percorso pazzesco, da studente, straniero per di più, a direttore della scuola in cui mi ero diplomato».
Come è finito agli studios di Abbey Road?
«Nel 2011 la Sae è stata venduta a una grande corporation. Potevo restare ma sentivo che l’ambiente era cambiato e cercavo nuove sfide, così me ne sono andato. Per un colpo di fortuna poco dopo mi ha cercato l’Universal Music Group, il gruppo proprietario degli Abbey Road Studios: anche loro pensavano di aprire una scuola d’ingegneria musicale e tecnica del suono, avevano sentito parlare del mio ruolo alla Sae e mi hanno invitato a dirigerla. Così sono diventato il direttore dell’Abbey Road Institute, che abbiamo aperto da poco, con il progetto di creare filiali anche a Berlino, Monaco, Sydney e Melbourne».
Com’è possibile, per un ragazzo italiano, ritrovarsi in 13 anni a capo della scuola musicale degli studi di registrazione dei Beatles?
«Solo Londra offre simili opportunità a un perfetto sconosciuto. È il risultato di tre fattori: l’apertura mentale degli inglesi, la meritocrazia del loro sistema scolastico e delle carriere, infine la chance d’imparare moltissimo da grandi professionisti che ti trattano da pari a pari».
Che consiglio darebbe a un giovane italiano che vuole tentare di farcela a Londra, nel suo stesso campo o in un altro?
«La prima cosa è impossessarsi della lingua. Poi bisogna scrollarsi di dosso i pregiudizi e le barriere culturali, inammissibili in una metropoli multiculturale. Guai a essere arroganti, a pensare di avere capito tutto: c’è sempre qualcosa in più da imparare. Infine rivalutare certi aspetti positivi dell’italianità, rendersi conto che il nostro calore umano, la nostra comunicativa, sono un vantaggio da sfruttare arrivati sulle rive del Tamigi».
(ha collaborato Cristina Carducci)
Enrico Franceschini, la Repubblica 27/6/2015