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 2015  giugno 27 Sabato calendario

SANGUE IN TRE CONTINENTI NEL MESE SACRO DELL’ISLAM IL CALIFFATO DI AL BAGHDADI CELEBRA IL SUO ANNIVERSARIO

La testa mozzata in Francia, la strage sulla spiaggia tunisina, la decimazione dei fedeli in una moschea sciita del Kuwait hanno celebrato il primo anniversario del “Califfato”, dichiarato il 29 giugno dell’anno scorso. Pochi giorni fa uno dei più loquaci portavoce, Abu Mohammed al-Adnani, aveva invitato da Raqqa, in Siria, militanti e simpatizzanti a fare del Ramadan, periodo di semidigiuno e di intense preghiere che i musulmani stanno vivendo in queste settimane, «un mese di disastri per gli infedeli». L’esortazione non è caduta nel vuoto. In tre continenti, Europa, Africa, Asia, sono stati compiuti atti di terrorismo che per la quasi simultaneità hanno dato l’impressione di essere stati ordinati, concordati, organizzati direttamente dallo Stato islamico, o Califfato. Le inchieste, assai più delle rivendicazioni spesso di natura propagandistica, sapranno forse precisare la fondatezza o meno di questa sensazione. Ma molti elementi ci fanno pensare che quanto è accaduto ieri a quaranta chilometri da Lione, sulla spiaggia di Susa e nella moschea del Kuwait sia stata iniziativa di persone isolate o cellule spontanee che hanno agito per conto proprio, pensando così di essere parte di quel lontano “ Stato islamico” che suscita paura o perplessità ma anche passione.
Il sinistro episodio avvenuto nell’Isère, a quaranta chilometri da Lione, è indicativo. Il terrorista ha appeso all’inferriata della società che tratta il gas, per conto di americani, la testa tagliata del suo padrone francese. Era un fervente salafita, tenuto d’occhio a lungo dalla polizia, e questo prova il suo autentico fanatismo religioso; ma al tempo stesso ha voluto regolare a modo suo i conti con un datore di lavoro che non gli andava a genio. Frustrazione sociale, voglia di vendetta e desiderio di sacrificarsi per la propria fede si sono confuse. Saldate. Le indagini ci diranno di più, e tuttavia il caso in apparenza singolare del terrorista di origine araba, subito identificato dai poliziotti francesi, non declassa il pericolo del terrorismo. Al contrario l’ aumenta.
Controllare, misurare le frustrazioni dei musulmani in Europa suscettibili di trasformarsi in jihadismo è un’opera improba per la polizia più sofisticata. Gli atti di terrorismo compiuti in Francia si sono rivelati spesso atti isolati: quello di gennaio nella redazione di Charlie Hebdo e nel negozio kosher di Porte de Vincennes, come quelli precedenti altrettanto micidiali. Tutti hanno rivelato che l’azione sociale, affiancata a quella indispensabile di polizia, è necessaria per evitare i più gravi avvenimenti che rischiano di investire il continente. In particolare ancora la Francia ferita, alla quale l’Europa deve solidarietà. Azione sociale significa combattere l’emarginazione, disastrosa fabbrica di frustrazione e rabbia.
L’ attentato di Susa getta il panico in Tunisia, colpevole di avere trovato una saggia e dignitosa soluzione all’islamismo, che aveva scippato la prima primavera araba ma che poi, almeno l’ala moderata, ha accettato l’alternanza al potere. Cioè la democrazia. È dunque contro la giovane e solitaria democrazia del Maghreb che il terrorismo ha falciato decine di turisti. E il turismo è l’equivalente del petrolio nella vicina Libia o nell’altrettanto vicina Algeria. Per celebrare l’anniversario del Califfato, e anche la conquista di Mosul, in Iraq, conquistata nel luglio del ’14 e ancora in mano ai jihadisti, quest’ultimi hanno colpito a morte la saggia, democratica Tunisia. La morte era forse ispirata dalla Libia, in preda alle bande armate. La stessa gentile Tunisia ha tuttavia dato il maggior numero di jihadisti, dopo la Libia, alle unità combattenti in Siria e in Iraq. Non sarebbe quindi tanto strano che la strage sia opera di gente del posto. Di autoctoni che hanno agito spontaneamente alle esortazioni venute dal remoto Califfato. Se questa è la realtà non sarà facile contenere, reprimere le spinte terroristiche che nascono dalle masse socialmente frustrate. I gendarmi ricevuti in eredità da Ben Ali, il raìs rifugiatosi nell’Arabia Saudita, non basteranno. Il Kuwait, arroccato nel suo petrolio e nei suoi dollari, non era mai stato violato. Il Califfato ha rivendicato la strage nella moschea sciita.
Queste stragi, questi morti sono comunque dovuti all’attrazione che esercita il Califfato disegnatosi tra la Siria orientale e l’Iraq occidentale, che adesso fa sognare tanti giovani fanatici religiosi. Il suo territorio è grande come la Gran Bretagna, con ampi deserti. Le valutazioni più ottimistiche gli aggiudicano circa centomila combattenti. La cifra è oscillante. Come lo è quella degli stranieri, vale a dire né siriani né iracheni, accorsi come volontari, che sarebbero trentamila. I successi recenti sono stati tanti. In Siria il Califfato ha occupato Palmira; in Iraq ha preso il controllo di Ramadi, capoluogo della provincia sunnita di Anbar. Il 16 giugno ha però dovuto abbandonare Tal Abyad, nel Nord della Siria. La città garantiva un rapporto diretto tra Raqqa, la sua capitale, e il confine turco. Una strada diretta sulla quale arrivavano uomini, armi e viveri. Ma nello stesso tempo il Califfato ha lanciato un’offensiva su Kobane, sempre al confine turco-siriano, che aveva perduto mesi addietro. Nonostante le incursioni aeree della coalizione creata dagli americani e gli interventi efficaci delle milizie sciite e kurde, il califfato ha ormai assunto le dimensioni di uno stato. L‘aiuto degli uomini del partito laico Baath, un tempo al servizio di Saddam Hussein e adesso convertitisi alla Stato islamico, è stato prezioso. Come è stato prezioso quello degli ufficiali dell’esercito iracheno, anch’essi un tempo agli ordini del raìs di Bagdad sconfitto dagli americani e impiccato dagli iracheni.
Il “califfo” è l’uomo che accende le passioni dei terroristi. Abu Bakr al-Baghdadi, che si è proclamato califfo nel luglio scorso nella Mossul appena conquistata, ha 44 anni, e viene chiamato “il fantasma” o lo sceicco invisibile, perché appare in pubblico di rado, e con i suoi subordinati porta una maschera. Un tempo faceva sognare Bin Laden, il capo di Al Qaeda, ma il successore, l’egiziano Ayman al-Zawahiri, non ha carisma. Al-Baghdadi invece ne ha.
Bernardo Valli, la Repubblica 27/6/2015