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 2015  giugno 27 Sabato calendario

INVECE DI DIMINUIRE, LA BOMBA DEI DERIVATI FINANZIARI CONTINUA AD AUMENTARE, TRANNE CHE IN ITALIA. E BUFFETT TEME UN ALTRO BOTTO

Di Warren Buffett, 84 anni, sono celebri alcune definizioni. Investitore di maggiore successo del 20.mo secolo. Seconda persona più ricca degli Stati Uniti. Guru numero uno della finanza mondiale.
In un bel Cameo su Italia Oggi, il nostro Riccardo Ruggeri l’ha descritto così: «La formica regina di Wall Street, l’uomo che per me si identifica, meglio di tutti, con il capitalismo americano. Uno da tenere d’occhio».
Benché malato (prostata), Buffett è sempre sul pezzo, e in una recente intervista ha ribadito il suo punto di vista sui derivati finanziari. Nel 2002, in anticipo sui tempi, li definì «armi finanziarie di distruzione di massa, che portano pericoli potenzialmente letali, anche se latenti».
Cinque anni dopo, nel 2007, l’esplosione della più grande crisi finanziaria dai tempi di Wall Street, gli diede pienamente ragione. E soltanto il fatto che le grandi banche Usa, avvelenate da un eccesso di derivati, fossero troppo grandi perché il governo le lasciasse fallire, evitò una catastrofe mondiale più grave di quella che abbiamo vissuto, e dalla quale non siamo ancora usciti sul piano europeo.
Pochi giorni fa, quando un giornale Usa gli ha chiesto se è tuttora convinto che i derivati siano «armi finanziarie di distruzione di massa», Buffet non solo l’ha confermato, ma ha aggiunto che «a un certo punto causeranno grossi guai».
Le banche sono diventate più abili che in passato nella gestione dei derivati, usano algoritmi sofisticati che consentono di vincere più scommesse finanziarie (questo, e non altro, sono i derivati) di quante ne perdano.
Ma basterebbe un «evento cigno nero», un fatto grave e imprevisto come una guerra, una pandemia o il default di uno Stato (la Grecia, nel caso europeo), e la bolla dei derivati scoppierebbe di nuovo. Con esiti peggiori rispetto al 2007, se si considera che le cinque maggiori banche Usa, la cui esposizione ai derivati supera di decine di volte gli asset propri, rappresentano il 42% di tutti i prestiti negli Stati Uniti e il 67% di tutte le attività bancarie. Il loro crollo, se mai si dovesse verificare, provocherebbe l’asfissia finanziaria dell’economia Usa, in pratica la rovina.
Buffett non ha parlato a caso, ma in base ai numeri. Infatti, dopo il salvataggio delle banche Usa «too big to fail», troppo grandi per poter fallire, da parte della Federal Reserve, compiuto con gigantesche iniezioni di liquidità mensili (quantitative easing), la giostra dei derivati ha ripreso a girare nelle banche come e più di prima, con il risultato che, rispetto al 2007, il loro valore nel mondo, anziché diminuire, è salito di 500 miliardi di dollari. Secondo la Banca dei Regolamenti internazionali, il loro valore totale è di circa 710 mila miliardi di dollari, concentrato soprattutto sulle banche che, a Wall Street, dettano legge. Il rapporto trimestrale più recente dell’Office of the Comptroller of the Currency (Occ), che fa parte del Dipartimento del Tesoro Usa, ha rivelato un quadro allarmante, in quanto le cinque maggiori banche Usa risultano esposte sui derivati per 40 trilioni di dollari, somma che supera i loro stessi asset di 30-50 volte.
Aggiornati alla data del 31 dicembre 2014, ecco i dati delle prime cinque «too big to fail».
JP Morgan Chase ha un’esposizione ai derivati di 67 trilioni, contro appena 2,5 trilioni di asset propri.
La Citibank è esposta per 60 trilioni, contro 1,9 di asset.
La Goldman Sachs sta perfino peggio: 54 trilioni di esposizione, contro un solo trilione di asset (rapporto di uno a 54).
La Bank of America è esposta per 54 trilioni, contro 2,1 trilioni di asset.
Infine Morgan Stanley è esposta per 44 trilioni, contro soli 831 milioni di dollari di asset.
Per completare il quadro di questa autentica follia finanziaria, il sito Zero Hedge ricorda che il problema derivati incombe anche sull’Europa, soprattutto sulla Germania, dove la Deutsche Bank ha un’esposizione ai derivati superiore a quella delle maggiori banche Usa: 75 trilioni di dollari, vale a dire cinque volte il pil europeo, più o meno l’intero pil mondiale. Il tutto in capo a una sola banca, il cui ceo Anshu Jain (guarda caso) è stato cacciato pochi giorni fa.
Se può consolare, sul fronte derivati l’Italia sta diventando uno dei Paesi più virtuosi. Il merito è della Banca d’Italia di Ignazio Visco, che, senza attendere i tempi lunghi di nuove leggi in materia, ha attuato una riforma bancaria per via amministrativa, disincentivando i banchieri dall’assumere rischi eccessivi per conseguire maggiori bonus.
Il risultato è che le banche italiane hanno ridotto l’esposizione sui derivati più e meglio di quanto abbia fatto lo Stato. Basti pensare che le sei maggiori banche italiane a cui fa capo il 90% dell’esposizione ai derivati (Mediobanca, Unicredit, Intesa, Mps, Banco Popolare e Ubi) hanno in bilancio, messe insieme, una perdita potenziale di un miliardo di euro, cifra piuttosto contenuta se paragonata ai 42 miliardi di perdite potenziali che pesano sul Tesoro.
I rischi non sono però scomparsi. Tra il 2008 e il 2014, secondo Bankitalia, il valore nozionale dei contratti derivati in Italia si è ridotto di circa un quarto, ma è tuttora pari a quattro volte il pil (contro otto volte a livello mondiale).
Traduzione: prima che le banche italiane riprendano fiato, ci vorrà ancora parecchio.
Tino Oldani, ItaliaOggi 27/6/2015