Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  giugno 27 Sabato calendario

LA FELICITA’ A PAROLE

La ricerca delle parole felici inizia nel 1969, quando due psicologi americani, Jerry Boucher e Charles Osgood, avanzarono la cosiddetta Ipotesi di Pollyanna, dal nome dell’irritante ragazzina dall’ottimismo patologico. La comunicazione umana, dicevano, tende a utilizzare parole positive più frequentemente di quelle negative. E se pare curioso parlare di parole felici in tempi di troll e hater (on e offline), oggi la veridicità di quel principio sembra finalmente dimostrata. Nel più vasto studio mai realizzato sul linguaggio e le emozioni, il primo a servirsi dei big data, due matematici dell’Università del Vermont, affiancati da un team internazionale di linguisti, hanno analizzato miliardi di tweet, milioni di libri, giornali, film e canzoni in dieci lingue diverse, scoprendo che in ogni lingua, su qualsiasi piattaforma, le parole più usate per comunicare sono parole felici. Una predisposizione universale, un pregiudizio, se volete, alla felicità.
Peter Dodds e Chris Danforth hanno selezionato le 100 mila parole più ricorrenti in inglese, spagnolo, francese, tedesco, portoghese, coreano, cinese, russo, indonesiano e arabo, chiedendo per ciascuna a partecipanti di madrelingua di quantificare la propria reazione emotiva su una scala da 1 a 9, dove 1 è un termine infelicissimo e 9 il contrario. Risultato? Il punteggio medio è sistematicamente superiore (spesso di tanto) al valore neutro 5. Non solo: in generale, osservano gli esperti nella ricerca pubblicata a febbraio, le lingue esaminate sono composte soprattutto da parole felici. E anche tra le parole meno usate prevalgono quelle positive. A differenza di Tolstoj, però, ogni lingua felice è felice a modo suo: spagnolo e portoghese sono le più allegre, il cinese la più triste .
Bellissimo. Ma a che serve? E come ci si arriva? In realtà, la scala di Dodds muove da quella messa a punto nel 1999 da due ricercatori dell’Università della Florida. Analizzando un migliaio di parole, Margaret Bradley e Peter Lang avevano scoperto che termini come «sedia», «carta» e «taxi» ottenevano sempre un punteggio molto neutro, mentre «amore» o «trionfante» il punteggio più alto, e «stupro» e «suicidio» quello più basso. Se l’indagine si rivelò fondamentale per le differenze di genere («stupro» risultò molto negativa per le donne, ma leggermente più positiva per gli uomini), era però incompleta. «Taxi», chiosava il blog di linguistica di Slate, Lexicon Valley, avrebbe ottenuto lo stesso un punteggio neutro se invece che in una cittadina di pensionati lo studio si fosse svolto in una zona molto trafficata? Il campione di mille parole era troppo piccolo, quello dei partecipanti troppo omogeneo. Ma ecco che nel 2009 arriva Dodds, e allarga il raggio d’azione. Applicando i dati di Bradley e Lang a 230 mila canzoni di oltre 20 mila artisti dal 1960 al 2007. Misurare la felicità di una canzone da singole parole, infatti, non ha senso — tanto più che in generi come il country, solitamente malinconico, ricorrono termini («amante», «casa», «cane») con un punteggio di felicità molto elevato. Su larga scala, invece, l’operazione è valida, perché parole felici occorrono più spesso in contesti felici. Si scopre così che in inglese le canzoni sono diventate, negli anni, sempre più deprimenti, fino a toccare un picco di tristezza a metà dei Novanta. Questo perché parole come «baby» e «love», che fanno impennare l’indicatore di felicità (edonometro), iniziarono ad apparire sempre meno, sostituite da «odio», «paura», «morte». Tra gli artisti più allegri ci sono i Beach Boys e le Supremes, tra i più disperati gli Slayer, band thrash metal arrivata al successo nell’86 con l’album Reign in Blood. Un verso a caso: «Fiori morti per un morto senza volto». Ma Dodds ha vagliato anche 150 milioni di parole di blog del 2005-09. Scomponendo i quali per fasce d’età si vede come i più depressi siano i 13-14enni, nei cui testi imperversano «male», «noia», «inca**ato». La felicità cresce con noi, toccando l’apice tra i 45 e 60 anni, per poi diminuire: i 75-85enni sono a terra come i 17enni. Ancora: rispetto agli uomini, le donne posseggono una varietà lessicale superiore, inclini a usare sia parole raggianti che avvilite. Addirittura, i risultati di Dodds sulla felicità nel corso degli anni trovavano riscontro nei sondaggi Gallup sul benessere della popolazione.
Un dubbio però tormentava il matematico. Il migliaio di parole di Bradley e Lang, quelle cioè cui era stato assegnato un punteggio, era ancora un campione minimo. Se «alba» totalizzava 6.5, «crepuscolo» non era contemplata. Così Dodds decise di ripetere da zero lo studio dei colleghi della Florida. Finalmente, attribuire un valore numerico a 10 mila parole per 10 lingue avrebbe dato validità pressoché universale. E l’ascesa dei social media avrebbe fornito ulteriori sorgenti. Non solo. Per dimostrare la validità dello strumento in un arco temporale, Dodds ha tracciato il grafico delle parole ricorrenti di Moby Dick, Il Conte di Montecristo, Delitto e Castigo, trovando che riflette puntualmente gli alti e bassi del romanzo. Edmond Dantès compie la sua vendetta e la curva s’impenna. Sarà per questo che, come titolava il New Yorker giorni fa, leggere ci rende felici? È solo il primo passo. L’obiettivo è quantificare intere frasi, decine di lingue. Dodds non dice, in realtà, se siamo persone felici, ma solo che usiamo parole felici. Mentre coi libri, come notava Proust, non c’è socialità forzata, non sarà che il nostro lessico quotidiano tende al positivo perché a fare i Calimero nessuno ci vorrebbe intorno?