varie, 27 giugno 2015
ARTICOLI SU IGNAZIO MARINO E ROMA –
SERGIO RIZZO, CORRIERE DELLA SERA 27/6/2015 –
Il 13 luglio saranno già passati quattro mesi dalla proclamazione del Giubileo straordinario e ne mancheranno meno di cinque all’apertura dell’evento, prevista per l’8 dicembre prossimo. Ma niente di concreto, per quanto è dato sapere, è ancora stato messo a punto. Nessuna decisione, nessun piano, nessuna organizzazione. Chi in questi giorni ha partecipato a qualche riunione con i tecnici comunali conferma un senso di generale disorientamento. Forse comprensibile se si tiene conto dei problemi quotidiani e urgentissimi della città, ma anche delle docce scozzesi alle quali il sindaco Ignazio Marino viene costantemente sottoposto da mesi con le indiscrezioni circa la possibile nomina di un commissario governativo. I giornali riferiscono di screzi continui fra il Campidoglio e Palazzo Chigi, sempre regolarmente smentiti. Che però l’impasse sia totale è un dato di fatto facilmente ricavabile dalle dichiarazioni. Se Ignazio Marino aveva risposto il 13 marzo scorso all’annuncio del pontefice con un rassicurante «Roma è pronta da subito», ecco che il 12 giugno lo stesso sindaco di Roma diceva: «È urgente iniziare le opere visto che mancano pochi mesi all’8 dicembre». Quali opere? «La riparazione delle buche e la sistemazione di quei percorsi pedonali a cui tanto tiene il Papa». Anche perché per il Giubileo si prevede un aumento di almeno dieci milioni di turisti.
Per capirci, lo stesso numero di persone che ogni anno visita il solo museo del Louvre senza che per questo la città di Parigi vada in confusione mentale. Nemmeno dopo che la strage di Charlie Hebdo ha imposto da gennaio misure di sicurezza eccezionali. È stato fatto un piano ed è stato rispettato, con un minimo aumento del disagio che non scoraggia milioni di turisti. Ma lì ci sono trasporti che funzionano, un’amministrazione comunale che funziona, uno Stato che funziona. A Roma, purtroppo, no. E la cosa preoccupante è che nessuno se ne preoccupa.
Ulteriore dimostrazione della sconcertante inconsapevolezza che aleggia sulla capitale la troviamo all’aeroporto intercontinentale di Fiumicino, dove arrivano i turisti di tutto il mondo. A un mese e mezzo dall’incendio divampato (con modalità che ancora non abbiamo ben capito) nel Terminal numero tre, i disagi per i viaggiatori non sono finiti. Riaperto qualche giorno dopo il disastro, quello scalo è stato sequestrato e poi dissequestrato: ma il calvario non è finito. Ora, denuncia il deputato democratico Michele Anzaldi, si è deciso di procedere a ulteriori accertamenti sanitari a cura dell’Asl nell’area dei negozi (ancora chiusa) che richiederanno almeno venti giorni. Dal che è facile dedurre che l’aeroporto non tornerà alla normalità prima della metà di luglio. Anche in questo caso il fatto di essere in piena stagione turistica non preoccupa nessuno. Ma a chi toccherebbe?
Ovviamente alla politica, nella fattispecie quella che ha le responsabilità del governo nazionale, regionale e locale: tutte coincidenti nello stesso schieramento. Se però ogni energia più che essere concentrata sulla soluzione rapida dei problemi non fosse assorbita da una insensata guerra fratricida interna al Partito democratico. Da una parte i renziani che considerano Marino inadatto a guidare Roma e manovrano neppure troppo nell’ombra per metterlo sempre più in difficoltà, sperando che si decida prima o poi a fare le valigie. Dall’altra il sindaco che gioca perennemente in difesa. Il risultato è che la svolta di cui la capitale d’Italia avrebbe un disperato bisogno non si vede.
A Marino questo giornale non ha mai risparmiato le critiche. Il problema principale sta nella mancanza di autorevolezza e questa carenza si riflette in modo palpabile sul governo di una città che sembra non governata affatto. Ma chi invoca da sinistra le sue dimissioni dovrebbe ripensare a come si è arrivati a questa scelta degli elettori e agli errori gravissimi di cui si è reso responsabile il gruppo dirigente del Pd. Chi le pretende da destra, invece, farebbe meglio ad arrossire per le rovine materiali e le devastazioni morali di cui in cinque anni ha disseminato Roma: non bisogna aggiungere altro.
È fuori di dubbio che sia necessario un cambio radicale di passo nella gestione di una città che versa in condizioni inaccettabili per una capitale. Per raggiungere questo obiettivo, tuttavia, non è sufficiente sostituire il timoniere. Servirebbe un’assunzione di responsabilità collettiva della politica nei confronti dei cittadini. Che però è impossibile senza una rigenerazione dei partiti, negli ultimi anni sempre più somiglianti a comitati d’affari ripiegati su bassi interessi personali e di bottega. La destra è in macerie. Mentre il gruppo dirigente del Pd romano è in rotta: il compito di dipanare le nebbie che per troppo tempo l’hanno avvolto, affidato al commissario Matteo Orfini, è da far tremare le vene ai polsi. A lui i migliori auguri di successo. Diversamente, il dibattito su Marino rischia di essere soltanto l’ennesimo falso problema.
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MASSIMO FRANCO, CORRIERE DELLA SERA 27/5/2015 –
Si assiste ad una strana gara, nel Pd, ad affermare che il sindaco Ignazio Marino non è in bilico. Come se lo scontro emerso tra lui e il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, fosse una sorta di gioco delle parti; e come se l’inchiesta di Mafia Capitale avesse ormai sprigionato tutti i suoi miasmi. L’impressione, invece, è che il primo cittadino sia determinato a resistere e ad imporre al proprio partito la sua volontà; ma che ci possa riuscire solo se la situazione non cambierà nelle prossime settimane dal punto di vista giudiziario; e se verrà modificata, invece, la composizione della sua squadra.
La tenuta della trincea capitolina, che oggi sembrerebbe più resistente di qualche settimana fa, è legata agli sviluppi delle indagini della magistratura. Se dovesse arrivare un’altra ondata di arresti, a conferma di infiltrazioni ramificate e profonde, difficilmente si potrebbe evitare lo scioglimento. Il futuro non dipende dalla tenacia testarda di Marino a restare al proprio posto, rivendicando un certificato di onestà che peraltro nessuno gli contesta. Il problema appare anche quello di prevenire o comunque arginare contraccolpi di questo tipo. Diventa dunque evidente che per il vertice del Pd sarà decisiva la capacità del sindaco di rinnovare in modo radicale l’immagine del governo locale prima che accada altro.
La tregua tra Renzi e Marino non sarà stipulata sull’onestà del primo cittadino, ma sulla sua competenza amministrativa. Soltanto riconoscendo che così com’è la giunta non funziona né può funzionare, si eviterà una guerra di logoramento tra Palazzo Chigi e Campidoglio. Perché la guerra non è affatto conclusa: cova sotto le macerie in attesa di rispuntare alla prima occasione. Se riesplode, il risultato sarebbe di consegnare Roma al Movimento 5 Stelle: e cioè di ottenere esattamente il contrario di quello che si vuole. La scommessa è di evitare un epilogo sciagurato recuperando i rapporti tra governo centrale e locale.
Non si tratta di una prospettiva facile. Tra premier e sindaco non corre buon sangue. Ed entrambi sono dotati di un «ego» che fatica ad adeguarsi ai compromessi. Insomma, le premesse per una lunga fase di tensione non sono trascurabili. Né si può pensare di scaricare sulla Prefettura o sulla Procura il compito di risolvere un contrasto dai contorni squisitamente politici. Troppe volte arrivano prima i magistrati dei partiti, confermando quanto la nomenklatura sia in ritardo e condannata a delegittimarsi. Stavolta, sarebbe il caso di invertire la tempistica.
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GIOVANNA VITALE, LA REPUBBLICA 27/6/2015 –
Il sindaco ciclista resta senza velocipede. Il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica presieduto dal prefetto Gabrielli ha ritenuto «attendibili» le minacce ricevute da Ignazio Marino e ieri ha disposto «il rafforzamento del dispositivo di tutela». A cui lui ha reagito con un tweet: «Vado avanti con la scorta, ma senza paura».
D’ora in poi, dunque, niente più bicicletta per l’inquilino del Campidoglio: dovrà viaggiare su un’auto blindata con due uomini a bordo e farsi precedere, a ogni appuntamento pubblico e privato, da un sopralluogo della “lepre”, come in gergo viene chiamata la macchina della polizia che provvede alla bonifica preventiva degli spazi visitati dal chirurgo dem.
Il quale, nel frattempo, va dritto per la sua strada. «Guidare questa città, oggi, è la ragione della mia vita: io non mollo e ci rivediamo alle elezioni del 2018», perché «Roma ha deciso di andare avanti e lo faremo insieme fino al 2023», ha ribadito di nuovo nel pomeriggio, fendendo la piccola folla di sostenitori che grazie a un tam-tam su Facebook si era radunata sotto palazzo Senatorio al grido di “Io sto con Marino”.
Cinque-seicento persone, la metà dei quali addetti ai lavori, impiegati in Comune o nei municipi, consiglieri, assessori e mini-sindaci, arruolati con un giro di telefonate mattutino dallo staff del Campidoglio. Segno che la città, in preda al caos per lo sciopero dei trasporti, è rimasta sostanzialmente indifferente all’appello. Ma Marino non pare curarsene. «Insieme non possiamo che vincere e cambiare Roma, ed è quello che faremo», ha arringato, attorniato dai supporter fra cori («Daje più forte Ignà») fischietti e bandiere. «Grazie di questo incoraggiamento, che riguarda non solo me ma tutti quelli che stanno lavorando per una capitale diversa», ha risposto commosso il sindaco. Un flash-mob che risolleva il morale, mentre tutto intorno sembra franare. Soprattutto l’assemblea capitolina, schiacciata sotto il peso dei sospetti e dei veleni. Ieri la presidente dell’aula Valeria Baglio ha ricevuto la lettera di dimissioni del suo predecessore, quel Mirko Coratti agli arresti domiciliari per corruzione nell’ambito dell’inchiesta Mafia Capitale. E analoga comunicazione dovrebbe presto arrivare dal consigliere pd Pedetti e dal capogruppo di Centro democratico Caprari, anche loro ai domiciliari. A riprova che il pressing sugli eletti risultati coinvolti a vario titolo negli affari del clan Buzzi-Carminati comincia a dare i suoi frutti.
Chi invece ha deciso di gettare la spugna e di abbandonare lo scranno pur non essendo neppure indagato è l’ex capogruppo pd Francesco D’Ausilio. Che, citato nelle carte della Procura, non ha retto alla pressione: «Lascio per contribuire a fare chiarezza sul mio operato e per alimentare un processo di rigenerazione che la nostra città attende dopo mesi di difficoltà». Un punto che Marino legge a suo favore. «La mia giunta è pulita», ripete ormai come un mantra, «a Roma abbiamo davvero cambiato tutto. Anche grazie a un magistrato come Alfonso Sabella (assessore alla Legalità, ndr) noto nel suo ambiente come cacciatore di mafiosi».
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TOMMASO RODANO, IL FATTO QUOTIDIANO –
È possibile che la ‘narrazione’ delle battaglie di Marino la debba fare un blog che si chiama Roma fa schifo?”. Massimiliano Tonelli pronuncia il paradosso con un sorriso. Di quel blog – Roma fa schifo, appunto – è uno dei “tre o quattro” titolari. L’unico che ci mette la faccia e il nome.
Il sito è un caso editoriale. Nasce nel 2007 e si allarga nel tempo con i contributi di una comunità di collaboratori (anonimi) cresciuta insieme al successo. Racconta le molteplici forme del degrado della Città eterna (abusivismo, rifiuti, corruzione, truffe: l’infinito campionario romano). Si nutre di foto, video e segnalazioni dei cittadini.
Il blog è una strana creatura, che si vanta di non avere una redazione, né un responsabile. È uno dei siti più odiati della Rete, da destra e soprattutto da sinistra. Non è difficile capire perché: il linguaggio è cinico, a volte quasi violento. I suoi attacchi non risparmiano le persone ai margini: nel “degrado” possono finire anche nomadi, senza tetto, mendicanti. Roma fa schifo non sopporta – ricambiato – centri sociali e movimenti per la casa. Zero Calcare, ultima stella del fumetto italiano l’ha definito uno dei mali della città (e ha “dedicato” al blog di Tonelli la sua prima striscia su Repubblica).
C’è anche un aspetto controverso. Il sito DinamoPress, ha scritto dei rapporti lavorativi (al Gambero Rosso e ad Art Tribune) di Tonelli con Paolo Cuccia, che siede nel cda di Astaldi, l’azienda responsabile del progetto della Metro C di Roma. Sulle magagne (infinite) della gigantesca opera pubblica – secondo DinamoPress – il blog sarebbe meno incline all’indignazione. “Abbiamo risposto pubblicando i link di 20 articoli in cui attacchiamo la Metro C”, taglia corto Tonelli. Una replica che non ha convinto i detrattori. “I rossi dicono che siamo neri – spiega Tonelli – e i neri che siamo rossi. Non perdoniamo l’abusivismo di chi occupa i palazzi ‘a sinistra’, ma siamo stati portati in tribunale pure da CasaPound”.
Ma al di là di chi lo odia, il successo di Roma fa schifo è nei numeri: è letto da una media di 12-13 mila visitatori unici ogni giorno. Ed è diventato una fonte dei giornali locali e nazionali: la foto dei maiali che mangiano la spazzatura fuori dai cassonetti, il giorno dopo Natale 2013, ha scatenato un terremoto al Comune.
I “venti punti” a favore di Marino (uno degli articoli più “virali” del blog), sono uno dei pochi manifesti pubblici in difesa del sindaco, probabilmente il più efficace. “Marino è matto”, ride Tonelli. “Solo un incosciente avrebbe potuto sfidare Caltagirone, il monopolio di Cerroni sui rifiuti e le bancarelle dei Tredicine. In vent’anni non si era azzardato nessuno. La città è in ginocchio e il sindaco ha le sue responsabilità, ma se Renzi lo cacciasse ora farebbe una sciocchezza. Per metterci chi, poi? Non basterebbero Rudolph Giuliani e la Thatcher messi insieme”.
Roma fa schifo inizia nel 2007, Mafia Capitale esplode sette anni dopo. “È la teoria delle finestre rotte – sostiene Tonelli – . Se in un palazzo qualcuno sfascia un vetro e nessuno lo ripara, dopo qualche giorno ne romperanno un altro. Poi cominceranno a imbrattare i muri e a sporcare le scale. Alla fine la casa sarà buttata giù”. La casa è Roma? “Le grandi mafie nascono dai piccoli abusi quotidiani”.
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MARIO AJELLO, IL MESSAGGERO 24/6/2015 –
Una solitudine che pregiudica la possibilità di una svolta. È quella in cui Ignazio Marino si è venuto a trovare. Nessuno mette in discussione l’intenzione autentica, da parte del sindaco, di cambiare passo e di rilanciare la sua azione di governo. Ma il suo tentativo cade in un contesto di scetticismo generale, e le chance della ripartenza si vanno continuamente assottigliando per effetto di una crisi di fiducia diffusa e profonda.
Vengono meno, una dopo l’altra, le sponde che potevano aiutare il sindaco nel suo eventuale riscatto. Matteo Renzi continua in maniera lampante a prendere le distanze. Gli assessori chiave annunciano le dimissioni, è il caso di Guido Improta, oppure meditano di abbandonare la giunta, ed è il caso di Silvia Scozzese. Il mondo produttivo denuncia la paralisi «che sta affondando Roma». La politica nazionale e quella locale manifestano ogni istante di più la propria non condivisione dei destini di una giunta chiusa nel fortilizio Campidoglio e sempre più distante dalla città reale.
E c’è lo scontento dei cittadini che vedono la Capitale in preda a problemi che non sono stati risolti e che rendono difficile la vita quotidiana. La caduta di un pezzo di fiducia dopo l’altro: ecco perché, dopo la discesa ardita, la risalita di Marino appare un’impresa assai ardua. È venuto meno, in queste ore, anche il sostegno di quell’eccellenza economico-culturale, che Marino sventolava come fiore all’occhiello del Campidoglio. Quell’eccellenza economico-culturale rappresentata dal Cda di Palaexpo, che si è dimesso in massa insieme al suo presidente Franco Bernabè. Così, i sei mesi che ci separano dall’inizio del Giubileo, termine entro il quale il sindaco potrebbe dare i primi e decisivi segnali di inversione di rotta, sembrano essersi contratti di colpo. In un crescente clima di disincanto e di critica che non autorizza previsioni rosee. Marino, fin dagli esordi con lo slogan «Non è politica, è Roma», aveva puntato non sui partiti ma sulla società civile. E proprio questa però sta ora reagendo in maniera fredda ai destini del primo cittadino. Perfino il tentativo di rifugio nel popolo del Pd come nuova fonte battesimale - si veda l’apparizione dell’altra sera alla Festa dell’Unità, tra gli applausi dei militanti - risulta insufficiente. Non appare sufficiente a placare e a convincere la stragrande maggioranza dei romani che non si accontentano di slogan da comizio old style e guardano solo ai fatti.
Si è capito, intanto, che la gestione del Giubileo viene affidata non a Marino ma al prefetto Gabrielli. Il quale oltretutto, per la sua attesa e temutissima relazione sulle ipotesi di scioglimento del Comune di Roma, è diventato una incarnazione del Giudizio di Dio. Nell’attesa, ognuno recita la sua preghiera.
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CONCITA DE GREGORIO, LA REPUBBLICA –
Marino resta, strillate finché volete. Sorride, dice che non ha paura dei colpi di coda del vecchio sistema, dei calcoli e delle convenienze: chiacchiere. “Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce”, Lao Tse, c’è scritto nel suo profilo su WhatsApp. L’albero che cade ultimamente fa parecchio rumore: le prime pagine, gli ultimatum del premier, le strane indecifrabili storie degli immensi interessi su Roma. Deve andarsene. E perché, esattamente? Non tutti hanno capito.
Il sindaco marziano, il sindaco onesto accarezza le costole di una pila di quaderni con la copertina rigida allineati in orizzontale nell’angolo più discreto del suo studio. Un arcobaleno di colori: quello giallo porta scritto a pennarello “sociale”, quello azzurro “urbanistica”. Sono decine, e questi in vista sono solo quelli “per temi”. Poi ci sono quelli “per data”. Non esce mai senza il suo diario, quello attuale è nero con la costola rossa: lo tiene sulle ginocchia anche adesso. Scrive con penna verde un resoconto minuzioso di incontri e dialoghi, ora per ora, momento per momento. Nomi, circostanze, dettagli. Poi, la notte, trascrive nei quaderni a tema le varie sintesi. Sono – nella battaglia di Roma – la sua cintura di bombe a mano. Sorride. Ammette che tutti attorno a lui ne hanno paura, «annoto ogni conversazione e in effetti ho una memoria piuttosto precisa». Trova ragionevole, di questi tempi, pensare di metterli sotto chiave: magari domani. «Per esempio guardi: il 19 aprile 2015 ho proposto al governo di non versare per Roma neppure un euro per il Giubileo. Non voglio il miliardo e sette che avete dato la volta scorsa, neppure il miliardo e mezzo che avete versato per Expo, ho detto. Non voglio niente. Aumenterà il Pil, con il Giubileo, e posso fare coi nostri soldi. Accendo un mutuo e lo ripago coi proventi. Ecco il progetto. Siamo autonomi, basta che ci aumentiate il patto di stabilità per quest’anno. Facciamo da soli. Mi hanno detto no, vede? Legga. Legga le risposte». È tutto scritto, in effetti. A volte nelle pagine ci sono dei biglietti attaccati con lo scotch, come negli antichi diari di scuola. Azione, reazione. Persone, circostanze. Materia per inquirenti.
Ignazio Marino non si dimetterà da sindaco di Roma. Non è solo un’intenzione: è un fatto. Non possono costringermi, purtroppo per loro, e non lo farò. «Il problema non sono io. Io sono stato pregato di candidarmi perché altrimenti – dicevano i sondaggi – coi candidati presentati da Pd avremmo perso Roma. Si sarebbe andati al ballottaggio fra Alemanno e i Cinquestelle, mi dicevano mostrando le indagini. Mi hanno scongiurato, quelli che adesso mi accusano di non essere duttile. L’ho fatto, ho vinto e ora questa è la battaglia della mia vita: liberare il Campidoglio dalla politica oscura, come ho detto il 7 aprile dell’anno scorso quando ho vinto le primarie. Bonificare, estirpare il malaffare. Capisco che ora ci sia chi ha paura, ma io non mi fermo e loro – la vecchia politica, i suoi interessi – non mi possono fermare». Non possono, tecnicamente. Segue elenco: non lo possono sfiduciare, non esiste la sfiducia per il sindaco. «Me lo spiegò in tempi non sospetti Napolitano, era allora presidente della Camera, quando dopo Tangentopoli si cambiò il sistema elettorale per i comuni». Non si può sfiduciare un sindaco. Per quanti assessori si dimettano, saranno sostituiti. La pressione politica nazionale – le pressioni di Renzi, i motivi che le determinano – si fermano davanti alla volontà del sindaco. Nell’inchiesta su Mafia Capitale Marino come Comune si è costituito parte civile. «Abbiamo letto tutte le carte». Se infiltrazioni mafiose ci sono, il prefetto Franco Gabrielli con la sua relazione attesa per i primi di luglio dirà, certo non riguardano il sindaco né la giunta attuale – Marino di questo è sicuro, accarezza i suoi quaderni. Qualche elemento, forse, di quelli imposti dalla vecchia struttura del partito all’indomani delle elezioni. Breve digressione su Mirko Coratti, Pd, ex Forza Italia, arrestato 15 giorni dopo che i vertici nazionali del partito di Renzi avevano provato a convincere Marino di nominarlo vicesindaco. Molte fonti su questo punto convergono. I quaderni confermano. Nei giorni dello “scandalo” della Panda rossa che passava ai varchi ci fu chi a Santi Apostoli disse a Marino “serve un rimpasto”. Un Neymar nella squadra del Brasile’. Era Coratti. «Per mia grandissima fortuna ho diffidato, non mi sono lasciato condizionare neppure quella volta». L’unica concreta possibilità di mandare via Marino è non approvare il bilancio 2016. Allora sì si potrebbe commissariare il Comune. Troppo tardi, però. Le amministrative saranno in primavera. Nell’anno del Giubileo e della corsa per le Olimpiadi mandare in stallo il Comune di Roma per giochi politici sarebbe difficile da giustificare. «Arrivo al 2018, poi al 2023. Finisco il mio lavoro. Non mi possono eliminare, se ne facciano una ragione».
La battaglia di Roma vista da vicino è un po’ diversa da come la raccontano. È vero che Marino è un marziano. Completamente estraneo ai giochi di potere interni al Pd. È vero che ha peccato, in questa logica. Non dà udienza a chi la chiede (non ha mai ricevuto Bernabè, raccontano. Assegna incarichi con gare internazionali: agli spagnoli, agli svedesi, persino ai milanesi), non ha mostrato gratitudine al gruppo che ha favorito la sua elezione. Bettini, Morassut, Zingaretti, Meta. Li ha abbandonati. Centomila persone hanno votato alle primarie che lui ha vinto col 55 per cento contro David Sassoli e Gentiloni, candidati rispettivamente di Franceschini e (a Roma) del dalemiano Marroni, Gentiloni di Renzi che difatti lo ha fatto ministro. In Emilia, alle ultime primarie, sono andati in tutta la regione a votare in 55 mila, per avere un termine di paragone. Ha vinto contro l’apparato: un trionfo. Il partito – l’allora commissario cittadino Eugenio Patanè, il segretario regionale Gasbarra – gli ha imposto, mostrano i quaderni, almeno due nomi per la giunta. Giunta che lui aveva annunciato tutta di tecnici. I due nomi obbligatori erano Ozzimo e Coratti, entrambi coinvolti nell’inchiesta su Mafia Capitale.
Nei giorni in cui la Camera salva il sottosegretario Castiglione, Ncd, catanese, indagato per turbativa d’asta in una vicenda di rifugiati, amico personale di Alfano e gran collettore di voti per il governo in Sicilia l’accanimento su Marino – la richiesta implicita di dimissioni da parte del Pd e del governo – suscita qualche domanda. Nessuno dubita dell’onestà del sindaco. Quello che gli imputano è una scarsa “capacità di relazione”. Ma se la relazione deve essere quella col Pd di cui Barca ha da poco prodotto le evidenze – su cui il magistrato Pignatone indaga – ha ragione chi dice: viva nessun rapporto. A bordo campo si scaldano Alfio Marchini, il candidato di centro – c’è il partito della nazione, ci può essere, no?, il sindaco della città: basta con destra e sinistra, che noia – ma anche possibili ‘nomi nuovi’ cresciuti all’ombra del governo e graditi anche all’elettorato grillino. Dei “Rodotà per Roma”, dice un osservatore di lungo corso. Oppure una donna, una renziana di governo anticasta: funzionerebbe. Non tengono conto, nessuno tiene conto, del fatto che Ignazio Marino non se ne andrà e nessuno può costringerlo a farlo. «Inauguro la metro C, chiudo con gli appalti in assegnazione diretta e non mi servono i soldi degli altri, faccio con quello che ho», dice lui. Me l’hanno chiesto in ginocchio, ora lo faccio e pazienza se gli dispiace perché non hanno biada nella greppia. Al governo Marino può contare su Del Rio, su Padoan e Franceschini. Il resto è un colpo di coda del vecchio sistema di potere, dice. «Hanno paura, ma io no. Non sono di nessuno, e lo so che in politica vale questa regola: se sei di qualcuno di attaccano, se non sei di nessuno ti ammazzano. Purtroppo io – che non sono di nessuno – non mi ammazzo da solo e non mi lascio ammazzare». Una notizia, per Orfini e per Renzi. Che poi Orfini all’epoca delle primarie stava con quelli che ora sono “i cattivi”, quelli che Renzi non lo potevano sentir nominare. Ma in politica vince chi vince, e questa è un’altra storia. Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Un ottimo slogan per la prossima Leopolda, eventualmente.
Concita De Gregorio