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 2015  giugno 25 Giovedì calendario

I REGNI PASSANO FIRENZE RESTA


[Dario Nardella]

L’occasione per questo incontro è la conquista del gradino più alto del podio nella classifica stilata dal Sole24Ore lo scorso aprile, quella dei sindaci più apprezzati in Italia dai propri concittadini. Primo con il 65 per cento di gradimento, che fa seguito al 59,9 che conta davvero, quello delle elezioni del 27 maggio 2014.
Un anno da sindaco di Firenze. Un anno in quell’ufficio di Palazzo Vecchio, nella sala di Clemente VII, quella col soffitto del Vasari e l’Assedio di Firenze, imponente, nella parete dietro la lunga scrivania; la stessa che è stata per cinque anni di Matteo Renzi e per circa una decina, parecchio tempo prima, fra gli anni ‘50 e gli anni ‘60, di Giorgio La Pira.
Segnatevi questi due nomi, torneranno più volte nella conversazione. Non potrebbe che essere così; basta conoscere un po’ la storia politica recente di questa città e provare a incrociarla con quella personale di Dario Nardella: campano di nascita, fiorentino di formazione, violinista e laureato in Legge, sposato, tre figli, l’ultimo dei quali, Francesco, nato proprio il giorno dell’elezione a primo cittadino: «E fu ovviamente quella la cosa più importante di quel giorno», racconta a Studio papà Dario. Generalmente lo si registra, e a ragione, come un renziano della primissima ora, «talmente della prima ora che, prima di incontrare Renzi, Nardella aveva condotto una normale esistenza da militante diessino», ha commentato Marianna Rizzini in un delizioso ritratto che gli ha dedicato sul Foglio di qualche tempo fa.
«Guarda il pavimento, terracotta bianca e rossa del Cinquecento, e le forme simmetriche che riprendono quelle del soffitto», spiega il sindaco camminandoci sopra, con un fare misto da guida turistica consumata e da padrone di casa smanioso di mostrare quanto ci si possa trovare a proprio agio in cotanta storica eccezione – come in fondo è giusto che sia il primo cittadino di questa città, meta secolare di turismi di ogni sorta. Lo fa mentre si appresta a posare per il ritratto di queste pagine, «con la giacca e la cravatta o senza?», chiede al fotografo, ché in tempi di leader in maniche di camicia non si sa mai. Optiamo tutti per la formalità del con: se istituzione dev’essere, lo sia anche nell’apparato iconografico.
Dario Nardella, prima di fare il sindaco, ha fatto per quattro anni il vicesindaco di Matteo Renzi, proprio in questi uffici; è andato in seguito a Roma per guidare la pattuglia, allora di minoranza, dei parlamentari cosiddetti renziani all’alba di questa legislatura, per poi ritornare qui da candidato sindaco quando lo stesso Renzi è entrato a Palazzo Chigi. Corsi e ricorsi. Chi gliel’ha fatto fare?, si sono chiesti e gli hanno domandato in molti all’epoca. Non poteva rifiutare la proposta di “Matteo”, chissà se a malincuore, commentavano altri, più o meno ad alta voce. Oggi, col senno di poi, forse la cosa più sensata è chiedergli di azzardare un confronto fra i due mestieri, il primo cittadino e il parlamentare. «Sono due lavori molto diversi. Io penso che il sindaco sia la figura politica più intrisa di dimensione umana. Il che si traduce in un atteggiamento di costante generosità e dedizione verso la propria comunità – racconta Nardella – perché il sindaco non può permettersi di avere filtri con i propri cittadini, a differenza di altri ruoli politici. Tutto ciò rende difficile ma anche incredibilmente bello e affascinante il mestiere del primo cittadino, per il quale ci vogliono una grande determinazione, coraggio, energia fisica e mentale, e anche molta ispirazione. Io, quando mi sono dimesso da deputato, ero consapevole di tutti i privilegi e le franchigie a cui rinunciavo, ma ero altrettanto consapevole del fatto che fare il sindaco di una città che si chiama Firenze, per la potenza evocativa che le deriva dalla storia e dall’immagine contemporanea, sarebbe stato qualcosa di unico».
L’immagine contemporanea, certo. Normale che un sindaco ci tenga a metterla in risalto. Però, parliamoci chiaro, qui i visitatori di mezzo mondo vengono per cercare il passato. Come si declina al futuro una città come Firenze? Su questo Nardella ha le idee abbastanza chiare: «Con la coerenza. La storia di Firenze è grande perché Firenze ha sempre saputo interpretare la dimensione contemporanea con profonda intelligenza e capacità innovativa. Non c’è niente di più contemporaneo della cupola del Brunelleschi, se ci pensi. Per certi aspetti questa città è stata talmente al centro della vita di ogni tempo, da essere stata spesso avamposto di civiltà e di innovazione culturale. Il compito che abbiamo è quello di mantenere vivo quello spirito che Firenze ha sempre rivelato nei passaggi cruciali della propria storia. Cosa significa? Significa non arrendersi mai all’evidenza dei fatti. I grandi artisti, i grandi architetti, i grandi politici, e i grandi pensatori fiorentini, da Machiavelli a Michelangelo, da Leonardo a Pico della Mirandola, non si sono mai arresi all’evidenza dei fatti. Questo per una città del terzo millennio vuol dire osare, immaginare ad esempio una mobilità rivoluzionaria, pensare a una città senza auto almeno come prospettiva. E poi immaginare che si possa essere una città ricca di musei ma capace anche di produrre cultura contemporanea. E soprattuto bisogna avere l’ambizione di superare ciò che i nostri antenati hanno fatto, anche se mi rendo conto che, per chi governa Firenze, questo sia piuttosto difficile. Del resto lavorare in un luogo di così grande bellezza può portare a due opposte reazioni: o ne sei sopraffatto, ti abbandoni all’idea di non poterla mai raggiungere e quindi vivi di contemplazione passiva e ti accontenti di essere un buon custode della tradizione, oppure cavalchi, con il necessario pizzico di incoscienza, l’ambizione di poter continuare a stupire il mondo».
Questa tesi, secondo cui saranno le città il vero motore globale del futuro, è piuttosto diffusa: basta pensare quanto tempo e denaro ci stia investendo attraverso la sua fondazione l’ex primo cittadino di New York Michael Bloomberg (che Nardella a un certo punto cita, a proposito delle pratiche utili al buon governo, tirandone fuori una frase appuntata sulle note dell’iPhone: «Il successo dipende dalla capacità di perdere vecchie abitudini»). A tal proposito, noto in bella vista sulla lunga scrivania una copia di If Mayors Ruled the World, il libro culto di Benjamin Barber in cui lo scoppiettante accademico americano teorizza il superamento degli Stati nazionali e un mondo che riparte proprio dai sindaci e dalle loro città. Gli racconto che in occasione di un numero di Studio tutto dedicato al tema, l’anno scorso abbiamo intervistato Barber, il quale ha speso parole di grande interesse per le città italiane e per la fase che si potrebbe aprire qui da noi. Nardella sfodera un sorriso, a metà fra il soddisfatto e il sarcastico. Ci dice che ovviamente Barber gli piace molto ma che «sia detto con un pizzico d’orgoglio fiorentino: cinquant’anni prima di Barber, Giorgio La Pira ha scritto “i regni passano, le città restano”. Secondo me Barber ha letto La Pira. Detto questo, quelli come Barber per noi sindaci sono un po’ come la coperta di Linus: a fine giornata, dopo i problemi giudiziari, la corte dei conti, le buche delle strade, l’ennesimo comitato No inceneritore, No alta velocità, ci ricordano che in fondo siamo sempre quelli che possono cambiare il mondo. Però è vero: ormai da qualche anno la maggioranza della popolazione vive nelle aree urbane e non più in quelle rurali. Questo significa che solo innovando il sistema di governo delle grandi e delle piccole metropoli si possono cambiare le nazioni. Non solo: io trovo che le città abbiano quella dimensione culturale, sociale, globale e pluralista che talvolta riesce a superare gli ancoraggi identitari che spesso limitano gli Stati nazionali. Un esempio: il ruolo che le città e i sindaci possono svolgere nell’interrogare l’umanità sui grandi temi come la pace o la lotta alle povertà. Per questo, a sessant’anni di distanza da quel convegno di primi cittadini che proprio La Pira organizzò qui a Palazzo Vecchio, noi a novembre chiameremo a raccolta un centinaio di sindaci di città di tutto il mondo, alcune delle quali appartenenti a Paesi in guerra. Proveremo a dire quello che i governi non vogliono o non possono dire perché irregimentati in logiche di diplomazia e di equilibri nazionali. Oggi le città tornano a essere protagoniste, non c’è dubbio. Non è una sfida affatto scontata, men che meno è vinta: c’è infatti un deficit di rappresentanza dei sindaci, i quali sono tanto forti nelle loro comunità e nel rapporto con l’opinione pubblica, quanto sono deboli nella loro capacità di fare squadra e incidere a livello nazionale e internazionale. Chissà che questa nuova classe dirigente non possa rappresentare un modello valido per tutta l’Europa; Renzi, Delrio, Guerini, non a caso tutti ex sindaci». E Nardella anche, no? «Ora pensiamo a fare il sindaco, e a uscirne vivi. Poi si vedrà».
Prima di chiudere, riguardo gli appunti e ritiro fuori un tema su cui ci eravamo trovati a dibattere in pubblico qualche mese prima, in un giro di opinioni in cui l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli aveva sostanzialmente accusato di maleducazione Renzi e i suoi. Si sente un maleducato Dario Nardella, nonostante la giacca e la cravatta della foto? «Un grande toscano come Don Milani diceva che non serve a nulla avere le mani pulite se poi le si tiene in tasca. La mia generazione è cresciuta in un Paese dove chi doveva assumersi responsabilità spesso è rimasto in pantofole e con le mani in tasca, pontificando su tanti progetti che però non si sono mai realizzati. Trovo che ci sia un deficit di seria autocritica di un’intera generazione di politici, quella stessa che talvolta si sente usurpata violentemente da una nuova leva, e però non ha mai avuto l’umiltà di riflettere sul perché oggi ci troviamo in queste condizioni. La colpa non è di chi è arrivato adesso, ma di chi ha lasciato il Paese nella condizione in cui l’abbiamo trovato noi. Mi piacerebbe che ci fosse un minimo di umiltà e di onestà intellettuale in questo. Ne ho avvertite poche, da nessuna parte politica, men che meno dalla mia. La nuova classe dirigente viene vissuta come l’usurpatrice barbarica che ha fatto saltare ogni metodo e ogni bon ton istituzionale. Io trovo tanta ipocrisia in tutto questo. Da sindaco, vivo invece quotidianamente quella necessità, quasi fisica, da parte dei cittadini di vedere qualcosa di realizzato, di osservare finalmente una politica che porti a risultati che si possono toccare. Ce n’è un bisogno disperato. La cosiddetta maleducazione mi sembra davvero l’ultimo dei problemi”.