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 2015  giugno 22 Lunedì calendario

FARE IL PARMIGIANO, UNA MATTINA


Ogni cosa trasuda agiatezza e grasso animale in Emilia. La gente, gioviale e ben pasciuta, snob della provincia benestante e operosa. Le vetrine dei negozi, tutti lindi, vistosi e giusto appena demodè. Gli spacci alimentari, orgogliosamente glocal, stipati di leccornie, tortellini, paste all’uovo, conserve, burri, mieli, malvasie, salumi e formaggi d’ogni sorta. Persino l’erba, che andrà a ingrassare vacche il cui latte diverrà Parmigiano Reggiano, i cui scarti di lavorazione andranno a ingrassare maiali che diventeranno prosciutti. Tutto, visto da qui, è parmigiano.
Siamo qui per il parmigiano. Dopotutto, si tratta del marchio italiano Dop più influente in patria e all’estero, il solo a comparire, secondo l’ultima indagine di Ipsos, tra i dieci brand più apprezzati dagli italiani (la classifica è dominata da giganti della tecnologia, come Google, Amazon e Samsung, l’unica altra etichetta alimentare è Nutella), e con esportazioni in costante crescita da oltre dieci anni (+10,1 per cento nel primo bimestre del 2015). «Da quattro anni puntiamo molto sull’export, oramai vendiamo all’estero il 33 per cento del nostro prodotto», racconta il presidente del Consorzio Giuseppe Alai. «Il mercato statunitense è quello che cresce maggiormente, anche perché stiamo lavorando con grandi catene come Whole Foods Market e Costco, che ricercano il prestigio del nostro marchio».
Siamo qui per il parmigiano, si diceva, ma separare il legame col territorio di questo formaggio da quello del prosciutto di Parma sarebbe impossibile: «Dove si produce parmigiano, per tradizione si allevano anche maiali», spiega Igino Morini, portavoce del Consorzio. La storia del parmigiano comincia nell’undicesimo secolo, quando i monaci che popolavano i conventi della Via Emilia – benedettini, in principio, più tardi cistercensi – bonificarono gli acquitrini della zona. I lavori di prosciugamento richiedevano un impegno massiccio di vacche e buoi, che portò a una copiosa produzione di latte, troppo per essere consumato in monastero; da lì l’esigenza di produrre un formaggio in grado di conservarsi per lunghi periodi e adatto al trasporto. Il risultato fu un cacio a pasta dura, assai secco e stagionato in forme enormi; la lavorazione comportava però un’abbondanza di sottoprodotti indicati per l’alimentazione dei suini. Di qui, il collegamento tra parmigiano e prosciutto.
Il piccolo stabilimento che ci ospita è il caseificio sociale Coduro di Fidenza. Due ragazzoni energici e due donne dall’aria stanca: ce le presentano come «la mamma del casaro» e «la moglie del casaro». Il casaro, cioè il mastro formaggiaio che sovrintende a tutte le fasi della lavorazione, non c’è perché sta poco bene, ma sembrano cavarsela tutti benissimo. Indossano grembiuli di plastica bianca e stivali di gomma bianca. Un lezzo asprigno permea ogni cosa: è siero di latte, mi spiegano, il liquido che si separa dalla cagliata durante la caseificazione. Oltre che per farci la ricotta e il pastone dei maiali, lo utilizzano per pulire i macchinari, le stoviglie, i calderoni di rame e d’acciaio e persino il pavimento, da cui l’odore diffuso: l’impiego di detergenti è ridotto al minimo, l’idea di fondo è contenere la carica batterica contrapponendo ai microrganismi nocivi per l’uomo i fermenti lattici, cioè i batteri buoni. È l’antitesi, penso, del principio di sterilità, ossia igiene come assenza di vita, applicato all’industria alimentare, «la demonizzazione dei batteri», la chiama Morini: qui invece l’igiene è viva.
La ricetta del parmigiano prevede l’utilizzo di una parte di latte scremato e di una parte di latte intero: per questo la mungitura della sera viene lasciata in ampie vasche durante la notte, onde formare la panna e tramutarsi in latte scremato, poi una seconda mungitura, di latte intero, arriva la mattina.
Tra le fasi di lavorazione e quelle di stagionatura, fare il parmigiano richiede almeno ventiquattro mesi. Eppure la magia, quel mutamento formidabile che trasforma il semplice latte in qualcosa che, se cacio ancora non è, parecchio gli somiglia, avviene in un paio d’ore appena. Assistiamo alla spinatura, così si chiama questa fase, con gli occhi di un bambino nella fabbrica di Willy Wonka. Una donna versa nel calderone zeppo di latte il caglio e il siero-innesto; pochi minuti dopo, uno dei giovanotti tocca il latte con due dita per saggiarne la coagulazione. A quel punto, con un enorme strumento che somiglia a una frusta da cucina, la spina, inizia a mescolare, e come d’incanto il latte cambia consistenza, ciò che era liquido diventa denso e s’increspa. Di nuovo il garzone saggia la cagliata con la mano, imbraccia la spina e comincia adesso a pestare con vigore, colpi secchi e profondi, e ancora una volta cambia la consistenza, l’impasto torna liquido, ma ora è un amalgama disomogeneo; non più latte, ma siero di scarto, poiché i granuli ricchi di nutrimento che formeranno il parmigiano si sono depositati sul fondo. Non resta che raccoglierli, pressarli nelle forme, metterle in salamoia per una ventina di giorni e poi a stagionare per un paio d’anni.
Coduro produce circa venti forme di parmigiano al giorno. È uno dei 350 caseifìci che compongono il Consorzio del Parmigiano-Reggiano, che ogni anno produce 3,3 milioni di forme di cacio. Una delle responsabilità del Consorzio consiste nell’esaminare – letteralmente a una a una – tutte le forme al compimento dei dodici mesi. Quelle che passano l’esame sono marchiate a fuoco con il caratteristico contrassegno Dop e proseguono la stagionatura, a 24 o 36 mesi. Oltre il dieci per cento, in media, viene bocciato. Tra queste, quelle di qualità superiore vengono messe in commercio con la dicitura “parmigiano mezzano,” come e a dire che sono state promosse a metà. Le altre finiscono nelle industrie, nelle bustine di grattugiato, nei formaggini o nelle sottilette. E ogni cosa, ancora una volta, è parmigiano.