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 2015  giugno 25 Giovedì calendario

LE REGOLE DI UN UOMO


[Giovanni Soldini]

L’acqua scorre a poca distanza, per Giovanni Soldini dev’essere rassicurante. Non sarà il Capo di Buona Speranza, è soltanto il Naviglio pavese di Milano, ma è una questione di sensazioni. È la certezza che la via di fuga – eventualmente – è a portata di mano. La verità è che Giovanni non scappa più: in vita sua ha messo insieme una tale serie di fughe che oggi l’autentica trasgressione è rimanere fermo per una settimana di fila, stando appresso ai figli, oppure a occuparsi di quelle cose che toccano alle persone normali. Milano per Soldini è una specie di portolano della memoria, lo sfoglia con nostalgia mettendo in fila tutte le evasioni epiche degli anni – chiamiamoli così – ruggenti. Succedeva quando non stava ancora vicino agli oceani e, nella sua testa di diciottenne, Capo Horn era il prato di uno svincolo autostradale su cui piantare una tenda con un amico per andarci a vivere. «Ero scappato di casa», racconta. «Andavo in giro a vendere orecchini per mantenermi. Poi mi sono comprato un’Alfetta e mi sono messo a lavorare per uno spedizioniere svizzero. Però ero veloce, finivo in fretta le consegne e mi rimaneva del tempo da impiegare in qualche modo».
Iperattivo, inquieto, passionale. Giovanni ha finito per fare della fuga il suo habitat, perfezionandosi ogni volta di più. «In verità più che andarmene, a volte mi cacciavano», continua Soldini. «A scuola resistevo pochissimo. Al liceo Parini credo tre mesi, poi i licei me li sono fatti un po’ tutti. Ero dislessico e a quel tempo era una roba che si liquidava in fretta. Sei un asino, mi dicevano. Caso chiuso. Io però non mi sono mai sentito un asino. Mi veniva una gran rabbia, perché c’era gente che non sapeva un tubo ed era apprezzata più di me. Io non ricordavo le date, o magari sbagliavo a mettere l’h davanti alla a, ed ero un demente. Mi dicevo: ma sono io quello fuori, oppure sono questi qua? Non è stato facile, c’è il rischio di deprimersi. Io preferivo scappare».
Dopo le consegne svizzere è venuto il tempo dei palloni. È stato quando per ammazzare il tempo che gli rimaneva, è andato a bussare ai consolati di mezzo mondo per trovare qualcuno che gli offrisse qualcosa da vendere. Roba da esportare e commercializzare. Si è fatto vivo un tizio pakistano con due container pieni di palloni da calcio e guanti da ciclista. Giovanni ha circumnavigato l’alta Italia finché i container non si sono svuotati.
«Prendevo il 15% sulle consegne e un altro 15% di provvigioni. La sera con la moglie di quel pakistano finivo in un campo buio a Quarto Oggiaro. Con una torcia recuperavo i palloni che avrei venduto il giorno dopo. È durato un po’. Alla fine con quel che ho guadagnato mi sono comprato la macchina nuova e ho messo giù il deposito per la casa».
Questa la vita avventurosa di Giovanni Soldini a vent’anni. E ancora doveva salire in barca sul serio. Figuriamoci.
Oggi che di anni ne ha cinquanta, capisci al volo che quel Giovanni là, quello dei guanti e dei palloni da vendere ai commercianti della Brianza, non si è mai dimesso. È sempre lì che batte i piedi sotto a uno strato di pelle solo un po’ bruciato dal sole. La prossima tappa è un record sontuoso da battere a bordo di Maserati: è quello della San Francisco-Shanghai, la vecchia rotta dei cercatori d’oro, un tracciato che trasuda fascino solo al pensiero dei clipper di settanta metri che lo solcavano. Per Giovanni è l’ora della partenza. C’è però ancora tempo per qualche considerazione su un tema a lui poco congeniale: quello del ritorno.

Passare tanto tempo in mare, permette di cogliere al volo le differenze nei luoghi quando ci rimetti piede. Parliamo dell’Italia. Che effetto fa?
«Non bello, devo ammettere. Ogni volta ho la sensazione di un Paese fermo rispetto al resto del mondo che invece si è messo a correre. È frustrante. Qui si vive come se non esistesse la cosa pubblica. Non c’è una comunità, ma solo una cultura del furbo che se riesce a spuntarla è bravo. Invece quello bravo davvero fa fatica a emergere. Purtroppo da quel che vedo in giro, non ce lo possiamo più permettere. Infatti i conti non tornano. Ho un’amica che si è trasferita a San Francisco 15 anni fa, lei ha 40 anni ed è capo dipartimento alla sua università. Dice che in Italia ci tornerebbe volentieri ma finirebbe per essere una comune ricercatrice, magari farebbe le fotocopie. La differenza è dirompente».

E dell’italiano fuori dal Paese. Secondo te è cambiata la percezione?
«Portare in giro il marchio Maserati non è esattamente la condizione ideale per capirlo. Insomma, non siamo più gli emigranti con la valigia di cartone. Diciamo che un certo concetto di Italia legata al bello e al lusso, continua ad avere un fascino e una potenza incredibili».

Cosa pensi dei ventenni di oggi che si trovano di fronte a questa situazione?
«Ne conosco alcuni davvero in gamba, altri un po’ meno. Ma non è un’accusa, è una considerazione. La cultura da noi è quella dei genitori super protettivi, non ti permettono di fare esperienza di vita. Io non vado neppure a parlare con i professori, i miei figli me lo impediscono, hanno paura che gli si ritorca contro. E comunque a essere sinceri con i professori non son mai andato d’accordo. Ma il punto è che in Francia, in Inghilterra, in America persino in Spagna, a una certa età ti prendi una pedata nel culo e vai fuori di casa. A volte sento gli amici dei miei figli che vogliono andare i vacanza facendosi pagare l’hotel dai genitori perché non vogliono andare in tenda. Ma se non vai in tenda a 18 anni, non hai capito niente. Lo so, io non sono un papà normale, i miei figli me lo dicono. Però quando sento che qualcuno arriva a 23 anni e non ha ancora la patente vado giù di testa. Ai miei dico: la vita è tua, devi creartela, devi essere affamato e sognatore. Altrimenti sei fregato».

Un luogo comune diffuso è che i velisti siano anche un po’ filosofi.
«Non ne sono tanto sicuro, però è certo che quando metti piede a terra sei provvisto di un lucido senso della realtà. Viviamo in una società dove molti tendono a sentirsi invincibili magari si comportano come tali. Non è vero niente. Basta trovarsi di fronte alla natura per capire quanto siamo fragili. La natura viene da te, ti da una botta sulla spalle e fa: “Non fare il pirla, comando io”. Potremmo sparire tutti domani, senza lasciare un segno».

Il minimo comune denominatore della tua vita, dai palloni pakistani, al giro del mondo in solitario, è la fatica. Ci godi a fare fatica.
«Ho appena visto un film molto bello sulla storia di uno che vuole fare il batterista (Whiplash ndr). Il tipo ha un obiettivo, un sogno, e sacrifica tutto per quel sogno. Ma proprio tutto. Io la vedo così, se c’è qualcosa cui tieni davvero, qualcosa che ti cresce dentro, non c’è spazio per altro. E dunque fai tanti sacrifici, ma non te ne accorgi. Hai solo una fame della madonna e finché non ti sazi, non stai bene con te stesso».

Oggi sei appagato?
«A 50 anni cambiano le cose, quello che ho fatto tra i ‘20 e i 38 è qualcosa di irripetibile. Ma era giusto così. Adesso la fame c’è sempre, ma ci sono anche altre cose. Come i figli, soprattutto. E dunque si torna a terra più volentieri. Oddio a volte no... Ma il più delle volte, sì».

Ripensando a quei vent’anni spremuti all’osso, ti viene mai qualche rimpianto? La sensazione che a stare sempre in mare ti sei perso qualcosa?
«Sicuramente ho fatto molte rinunce, fa parte della contabilità delle cose. Io alla mia vita non avrei mai rinunciato e questo è ciò che insegno ai miei figli. Certo, so bene di non averli visti crescere, e di questo sono dispiaciuto. Però è anche vero che grazie al mio lavoro, alla mia vita, ho condiviso con loro dei momenti molto speciali. Ho fatto cose bellissime. Magari non nel quotidiano, ma non importa.

Rimettersi in navigazione significa tenere d’occhio il pianeta che si trasforma. Quali sono i luoghi della Terra in cui ripassi più volentieri?
Ce ne sono molti, la verità è che quando torno a vederli ho sempre una grande paura. Perché le cose cambiano a un ritmo pazzesco. Ricordo la Turchia, ci andai la prima volta a 9 anni con la barca di mio papà. Ti svegliavi e c’era la vecchietta che veniva a bordo a venderti lo yogurt. Oggi è una distesa di barche senza fine. Questo era 40 anni fa, ma prendi invece Panama rispetto a dieci anni fa. Una trasformazione pazzesca. Stavi in centroamerica, adesso pare Miami. Oppure Capo Horn, lo scorso anno ci siamo passati e di colpo ci siamo trovati di fronte a un’enorme nave da crociera piena di turisti. Un po’ inquietante. Però ci hanno fatto delle foto incredibili. Pensa che con l’immagine di uno di quei passeggeri ci abbiamo fatto la copertina del libro Maserati.

Stai dicendo che non ci sono più angoli inesplorati dove ogni tanto si può pensare di svanire?
Sempre meno. Forse agli estremi del mondo, tra i ghiacci. Però sono luoghi inospitali dove nessuno vuole andare.

Il mezzo secolo è la boa dei bilanci. Tu quando guardi avanti cosa vedi?
Risposta facile. Mi vedo per mare. È quello che sono, non vedo perché dovrebbe cambiare qualcosa a sessanta o a settanta. Se il fisico regge, ovviamente. Speriamo bene.

E se uno dei tuoi figli si mettesse in testa di fare il velista di professione?
Non mi sembra che siano su quella strada. Ci sanno fare in barca, certo, ma sceglieranno il loro destino. Io dico loro di avere coraggio, li sprono a osare. Sono fatto così, ho spiegato loro che lo studio è importante, ma imparare a stare al mondo lo è di più. Una volta mi guardavano strano, ora mi ringraziano. E per me è una gran bella soddisfazione.