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 2015  giugno 25 Giovedì calendario

 Avendo vissuto da ragazzo in via Ivanoe Bonomi, ero convinto che il politico a cui la strada era intitolata godesse di un buon nome e di una buona fama

 Avendo vissuto da ragazzo in via Ivanoe Bonomi, ero convinto che il politico a cui la strada era intitolata godesse di un buon nome e di una buona fama. Mi ha perciò meravigliato leggere un articolo nel quale viene evidenziata la scarsa considerazione in cui era tenuto. Piero Gobetti l’aveva definito un fascista mancato, mentre Antonio Gramsci lo aveva accusato addirittura di connivenza con il fascismo. Scevro da passioni che accecano, potrebbe stenderne un obiettivo profilo? Antonio Fadda antonio.fadda@virgilio.it Caro Fadda, D ue osservazioni, anzitutto. Il nome su una targa stradale non è una garanzia di qualità. La toponomastica italiana si conforma alla retorica del momento ed è spesso lottizzata dai partiti che governano le città. Il pensiero di Gobetti e Gramsci merita grande rispetto, soprattutto nell’ambito di una analisi storico-filosofica; le loro parole sono meno autorevoli se appartengono al linguaggio e alla dialettica delle battaglie politiche. Quando divenne presidente del Consiglio, nel 1921, Bonomi era un socialista riformista, espulso dal partito socialista nel congresso di Reggio Emilia (1912) per avere osato felicitarsi con il sovrano quando Vittorio Emanuele era sfuggito a un attentato. I mesi passati alla presidenza del Consiglio, dal luglio del 1921 al febbraio del 1922, non furono memorabili e non dettero alcun contributo alla pacificazione civile del Paese. Ma dopo l’avvento del fascismo, Bonomi preferì uscire di scena e dedicarsi a studi storici sul periodo della storia nazionale di cui era stato diretto testimone. Questa scelta dignitosa gli permise di tornare in campo nel 1942 come coordinatore del movimento antifascista clandestino. Divenne presidente del Cln (Comitato di liberazione nazionale) dopo l’armistizio e il candidato naturale alla presidenza del Consiglio quando il governo Badoglio, dopo l’ingresso degli Alleati a Roma, dovette dimettersi per lasciare maggiore spazio ai partiti. Agli occhi di molti, in quel momento, Bonomi aveva il merito di rappresentare la continuità con l’Italia prefascista. Occorreva spiegare al mondo e agli Alleati che il fascismo era stato soltanto una dolorosa parentesi e che l’Italia stava tornando alle sue tradizioni democratiche. Così pensavano Benedetto Croce, Luigi Einaudi e molti altri membri della classe dirigente. Era una tesi discutibile, ma utile per cercare di indurre gli Alleati a trattare l’Italia come un partner e a esorcizzare la prospettiva di bruschi mutamenti rivoluzionari. Bonomi dovette farsi da parte dopo la fine della guerra e lasciare il posto a Ferruccio Parri. Ma il vecchio socialista riformista restò in campo come deputato all’Assemblea Costituente, senatore di diritto nella prima legislatura e presidente del Senato dal 1948 alla fine della sua vita nel 1952. Non fu un grande statista, ma è giusto riconoscere che fu l’uomo giusto al momento giusto.