Massimo Vincenzi, la Repubblica 25/6/2015, 25 giugno 2015
«SARO’ SEMPRE UN ARTIGIANO DEL MISTERO»
Accade con Maurizio de Giovanni come con le migliori serie televisive americane: ogni episodio, ogni libro racchiude in sé l’essenza della storia e lo spettatore/ lettore può pescare l’episodio che preferisce restandone incantato di volta in volta pur non conoscendo il passato e ignorando il futuro. Con “Anime di vetro”, l’ultima avventura di Ricciardi il risultato non cambia, pur modificandosi alcuni fattori. Il commissario della regia polizia è uno degli eroi nel pantheon del noir italiano e il milione di appassionati (oltre centomila per otto edizioni) valgono più dei consueti aggettivi benevoli. Quello che colpisce questa volta è la costruzione del romanzo, che si muove su una struttura narrativa più ricca, un
mosaico raffinato dove i protagonisti hanno ognuno il loro giusto peso dando alla storia un ritmo serrato, mai banale. Come se i confini del genere iniziassero a stare stretti all’autore napoletano, anche se lui giura il contrario.
Un paradosso, ma non troppo: “Anime di vetro” non è un noir bensì un romanzo d’amore. Ha cambiato squadra?
«No, no. Scrivo sempre di delitti e misteri e la passione ne è il detonatore perfetto. Dentro ci sono molti elementi: certo c’è la tenerezza, ma c’è anche la ferocia, la cattiveria, si commettono follie nel nome dei sentimenti, si rinuncia alla dignità, gioia e dolore si aggrovigliano. È lo scenario perfetto per una crime story».
Sarà anche per questo che le donne hanno sempre avuto un peso fondamentale nelle sue storie. Come costruisce i suoi personaggi femminili?
«Alla stessa maniera di quelli maschili. Io non mi immedesimo nei miei protagonisti, lo trovo anzi un errore grave tipico della letteratura italiana. L’autore deve fare un passo indietro, deve lasciarli vivere, limitandosi a osservarli. Deve voler loro bene, capirli, ma non ti devono assomigliare. E così è più facile, naturale costruire figure credibili: siano uomini o donne ».
Quando ha scritto il primo racconto seduto ai tavoli del bar Gambrinus a Napoli immaginava il successo che ha avuto Ricciardi?
«Assolutamente no e tutt’ora è strano a dirsi ma non mi sento l’autore. È il commissario che usa me per scrivere. Fuori dalla metafora, non mi sono mai dato una scadenza e non ho mai pensato che sarebbe diventata una serie così lunga e fortunata. Non pianifico, cerco le storie dove già esistono e quando ne trovo una che merita di essere raccontata mi metto al lavoro».
È così che evita i rischi della serialità?
«Spero di sì: Ricciardi vive sempre e solo nel presente: non pensa mai a quel che accadrà e così ogni volta è una scoperta. L’altro elemento importante è creare solo quando è davvero il momento di farlo: senza forzature, senza calendari editoriali ».
Un commissario malinconico: perché lo ha inventato così triste?
«Sta in una gabbia di vetro, separato dal resto del mondo da una lastra invisibile. Le sere infinite passate ad osservare Enrica dalla finestra sono la perfetta rappresentazione del suo mondo. È timido, introverso, schiacciato dalle ingiustizie che vede, dalla povertà e dal dolore. Molta gente vive così, in tutti noi c’è un lato meno solare: forse anche per questo piace tanto».
Ne parla con grande affetto.
«Ogni volta è come ritrovare un vecchio amico. Come quando da bambini si andava in vacanza nello stesso luogo: anno dopo anno si trovavano le solite persone ma sempre diverse, cresciute, un po’ cambiate dalla vita ma fedeli a se stessi».
Ricciardi dice: «Per me è una sconfitta quando qualcuno va in galera». Ricorda un precedente famoso: Maigret, che non amava vedere la gente finire in prigione. È un paragone cercato?
«No, ma è vero che il commissario non ama punire le persone e non a caso non le accompagna mai in carcere. Tanto che su otto romanzi, ben cinque volte il colpevole resta libero: si tratta di donne, di povera gente, padri o madri con figli piccoli, che sarebbero i primi a vedere le loro vite distrutte. Ricciardi ha una cura particolare per i deboli, per gli emarginati. Sì, in questo ricorda Maigret per il quale non esistevano buoni e cattivi separati in maniera netta ».
In “Anime di vetro” c’è una scrittura più complessa e ricercata, da cosa dipende?
«Io sono un artigiano, penso al romanzo come a un divano: il legno, l’ossatura è la trama che deve essere semplice e lineare, i personaggi sono i cuscini che sono comodi, accoglienti, infine c’è la scrittura che è la tappezzeria: deve far venire voglia di comprarlo ma non deve stancare subito. Dall’armonia di questi tre elementi nasce il libro migliore e lo stile cambia di volta in volta a seconda di quello che si vuole raccontare».
La politica con la dittatura fascista è da sempre la cornice. Questa volta è ancora più presente con l’arrivo del proto nazista Manfred e con un ruolo più definito dell’agente Falco della polizia segreta di Mussolini. Come mai questa scelta?
«Mi interessava far vedere quanto influiva il fascismo sulla vita delle persone comuni, come ne limitava la libertà. A Napoli in particolare l’Ovra poteva contare su migliaia di collaboratori che creavano una rete di delazione impressionante. E poi cercavo un nemico seriale per il commissario Ricciardi e penso appunto di averlo trovato con Falco».