Hampton Sides, National Geographic 6/2015, 24 giugno 2015
ERBA MEDICA
La cannabis non è certo una novità; l’uomo conosce questa pianta più o meno da sempre.
In Siberia, all’interno di alcuni tumuli funerari, sono stati rinvenuti semi carbonizzati risalenti al 3000 a.C. I cinesi la usavano come medicina migliaia di anni fa. Persino George Washington, primo presidente degli Stati Uniti, coltivava la canapa, che allora era legale e veniva usata comunemente per tinture ed estratti.
Poi vennero il proibizionismo, i film e le campagne di propaganda contro l’“erba killer”, la teoria del passaggio alle droghe pesanti, e per una settantina d’anni la marijuana fu relegata alla clandestinità. Gli studi sulle sue proprietà mediche, la ricerca e la diffusione di informazioni furono criminalizzate.
Di recente però la crescita dell’uso a fini terapeutici ha dato nuovo impulso alla ricerca sulla cannabis; la pianta un tempo proibita è diventata una fonte di continue sorprese, persino di miracoli. È ancora illegale in gran parte del mondo e negli Stati Uniti è classificata come droga pericolosa, ma di recente Vivek Murthy, capo esecutivo del servizio sanitario Usa, ha espresso interesse per la ricerca scientifica, sottolineando come i dati preliminari dimostrino che “in alcune condizioni mediche e per alcuni sintomi”, l’erba possa risultare “utile”.
Oggi in quasi la metà degli Stati Usa l’impiego terapeutico della cannabis è legale, e la maggioranza degli americani si dice a favore della legalizzazione dell’uso ricreativo. Anche altre nazioni stanno cambiando il loro atteggiamento nei confronti dell’erba. L’Uruguay l’ha legalizzata. Il Portogallo l’ha depenalizzata. In Israele, Canada e nei Paesi Bassi esistono programmi sulla marijuana terapeutica e negli ultimi anni diversi paesi hanno varato leggi meno severe riguardo al possesso della sostanza.
In Italia la cannabis resta una sostanza illegale; il possesso per scopo personale prevede solo sanzioni amministrative, anche se un testo nebuloso rende difficile tracciare la linea di confine tra l’uso e lo spaccio, che è punito con il carcere. L’uso terapeutico viene invece riconosciuto legittimo dallo Stato ma è regolamentato dalle Regioni, che lo interpretano in maniera disomogenea. Sono stati inoltre avviati alcuni programmi pilota di coltivazione per uso terapeutico, gestiti dal Ministero della Difesa.
Di fatto, la ganja è sempre più utilizzata e diffusa, e ormai quasi non si fa più caso al suo inconfondibile odore. È vero, chi la fuma scoppia a ridere senza motivo, può perdersi in riflessioni profonde sulle punte delle proprie scarpe, dimentica quello che gli è successo due secondi prima e viene spesso colto da un desiderio irrefrenabile di ingozzarsi di patatine, o di qualsiasi altra cosa si trovi a portata di mano. E anche se non è mai stato riportato alcun caso di morte per overdose, va tenuto presente che resta pur sempre una droga potente – in particolare le efficaci varietà moderne – e in alcune circostanze dannosa.
Tuttavia, per molte persone la cannabis è un balsamo per lenire il dolore, facilitare il sonno, stimolare l’appetito, attutire i traumi della vita. I paladini dello spinello sostengono che sia in grado di eliminare lo stress. Si ritiene, inoltre, che possa essere utile come analgesico, antiemetico, broncodilatatore e antinfiammatorio. Secondo alcuni ricercatori, i composti presenti nella pianta possono contribuire a regolare alcune funzioni vitali del corpo umano, proteggendo il cervello dai traumi, rafforzando il sistema immunitario e agevolando la “cancellazione del ricordo” dopo un evento tragico.
Ma a fronte di questa tendenza a considerare accettabile il consumo di erba, regolandone la produzione e l’uso, tassandola e commercializzandola, è importante porsi alcune domande. Com’è fatta esattamente questa pianta? In che modo agisce sul nostro corpo e sul nostro cervello? Le molecole che contiene possono aiutarci a capire il funzionamento del sistema neurologico e magari contribuire allo sviluppo di nuovi farmaci benefici?
Insomma, se la cannabis ha davvero qualcosa da dirci, qual è la natura esatta del suo messaggio?
IL CHIMICO
Un tesoro da scoprire
A metà del Novecento, la scienza non sapeva quasi nulla della marijuana. Né quali sostanze contenesse, né come funzionassero. E il fatto che fosse illegale e demonizzata non incoraggiava certo gli scienziati a rischiare la propria reputazione impegnandosi in uno studio serio sull’argomento.
Poi, nel 1963, Raphael Mechoulam, un giovane chimico organico che lavorava all’Istituto scientifico Weizmann di Tel Aviv, decise di indagare sulla composizione chimica della pianta. Trovava strano che nessuno avesse idea di quale fosse il principio attivo della marijuana. «Era soltanto una pianta, un insieme confuso di componenti sconosciuti», racconta Mechoulaum, che oggi ha 84 anni.
Il chimico si rivolse alla polizia israeliana, che gli fornì cinque chili di hashish libanese sequestrato, dai quali il suo gruppo di ricerca riuscì a isolare – e in alcuni casi anche a sintetizzare – un gran numero di sostanze. Queste sostanze furono poi sperimentate separatamente su un gruppo di macachi rhesus, ma solo una provocò un effetto osservabile: quando veniva iniettata, la scimmia diventava decisamente più tranquilla.
Altri test portarono alla scoperta di ciò che oggi tutti sappiamo: quel composto è il principio attivo della pianta, la sostanza che altera la mente e ci fa sballare. Mechoulam e un suo collega avevano scoperto il tetraidrocannabinolo, o THC. L’équipe riuscì anche a isolare la struttura chimica del cannabidiolo (CBD), altro componente cruciale della marijuana che si presta a molti potenziali usi medici ma non ha effetti psicoattivi sull’uomo.
Per queste e molte altre scoperte, Mechoulam è considerato il padre della ricerca sui cannabinoidi. Autore di oltre 400 articoli scientifici e titolare di circa 25 brevetti, questo anziano e gentile signore ha passato la vita a studiare la cannabis, che definisce “un tesoro medico ancora da scoprire”. Le sue ricerche hanno dato origine a una sottocultura di ricerca sulla cannabis diffusa in tutto il mondo. Sostiene di non aver mai fumato l’erba, ma è una celebrità nel mondo della marijuana e riceve un’enorme quantità di lettere dai suoi fan.
«È tutta colpa sua», gli dico quando lo incontro nel suo ufficio pieno di libri e premi per parlare del recente interesse per la ricerca sulla marijuana.
«Mea culpa!», risponde con un sorriso.
Lo Stato di Israele ha uno dei programmi più avanzati del mondo sulla marijuana terapeutica. Mechoulam ha avuto un ruolo attivo nella sua organizzazione ed è orgoglioso dei risultati ottenuti. Più di 20 mila pazienti israeliani sono autorizzati a usare cannabis per il trattamento di patologie come il glaucoma o il morbo di Crohn, ma anche infiammazioni, perdita d’appetito, sindrome di Tourette e asma. Malgrado ciò, lo scienziato non è particolarmente favorevole alla legalizzazione della cannabis per uso ricreativo. Non ritiene sia giusto mandare in prigione chi la usa, ma ribadisce che la marijuana «non è una sostanza innocua», in particolare per i giovani. Diversi studi, osserva, dimostrano che l’uso prolungato di varietà con contenuto elevato di THC può alterare la crescita di un cervello in via di sviluppo. Ricorda che in alcuni soggetti può provocare attacchi d’ansia gravi e che, secondo altre ricerche, può far insorgere la schizofrenia in chi è geneticamente predisposto alla malattia. Se fosse per lui, la cultura dello spinello ricreativo dovrebbe essere sostituita da una ricerca entusiastica, seria e regolata della cannabis come sostanza medica. Nel 1992 Mechoulam e colleghi effettuarono una scoperta straordinaria, riuscendo a isolare la sostanza prodotta dal corpo umano che si lega allo stesso recettore del THC nel cervello. Mechoulam l’ha battezzata anandamide, dal termine sanscrito che significa “gioia suprema”.
Da allora sono stati scoperti altri endocannabinoidi e i loro recettori. Gli scienziati sono arrivati a capire che gli endocannabinoidi interagiscono con una specifica rete neuronale, più o meno nello stesso modo delle endorfine, la serotonina e la dopamina. È stato dimostrato, osserva Mechoulam, che l’esercizio fisico aumenta il livello di endocannabinoidi nel cervello «e questo probabilmente è alla base di quella che gli appassionati di jogging chiamano “euforia del corridore”».
Sembra che questi composti, spiega lo scienziato, svolgano un ruolo importante in alcune funzioni fondamentali quali la memoria, l’equilibrio, il movimento, lo stato di salute del sistema immunitario e la neuroprotezione.
In genere, le aziende che producono farmaci a base di cannabis cercano di isolare i singoli composti della pianta. Ma Mechoulam ha il sospetto che in alcuni casi quelle stesse sostanze lavorerebbero molto meglio in concerto con altri composti. Lo scienziato lo definisce “effetto entourage”, e ritiene sia uno dei tanti misteri della cannabis che richiedono ulteriori indagini. «I cannabinoidi potrebbero essere in qualche modo coinvolti in tutte le patologie umane», conclude.
IL BOTANICO
In piena luce
L’edificio di 4.000 metri quadrati si erge davanti a una centrale di polizia di Denver, lungo una strada anonima di magazzini riconvertiti che tutti chiamano Green Mile (miglio verde). Vengo accolto alla porta dall’orticoltore capo di Mindful, una delle principali aziende per la produzione di cannabis al mondo.
Philip Hague, 38 anni, mi fa strada attraverso gli uffici della Mindful fino ai corridoi interni e ai congelatori dove sono conservati semi provenienti dall’Asia, dall’India, dall’Africa del Nord e dai Caraibi. Instancabile viaggiatore, Hague nutre un profondo interesse per la biodiversità storica della pianta e la sua banca di semi di varietà rare, selvatiche e antiche è una parte importante della proprietà intellettuale della Mindful. «Dobbiamo riconoscere che gli uomini si sono evoluti assieme a questa pianta dalla notte dei tempi», spiega Hague. «L’uso della cannabis è più antico della scrittura. Partita dall’Asia centrale dopo l’ultima glaciazione, ha attraversato il pianeta insieme all’uomo».
Quando, nel 2009, il Dipartimento di giustizia Usa ha annunciato che non avrebbe perseguito chi rispettava le leggi del Colorado sulla marijuana terapeutica, Hague ha guardato sua moglie e le ha detto: «Ci trasferiamo a Denver». Oggi dirige una delle più grandi coltivazioni legali al mondo, con oltre 20 mila piante di marijuana.
Passiamo accanto alle sale per il trattamento e arriviamo in una stanza rumorosa piena di pompe, ventole, filtri, generatori e potatrici meccaniche. Le telecamere registrano ogni movimento dei giovani operai in camice bianco. «L’erba va a ruba!», sorride Hague; mi spiega che la Mindful ha in programma di espandersi e costruire strutture simili in altri Stati. Entriamo in un’altra stanza, immensa, calda, che odora come 100 concerti degli Yes. Quando i miei occhi si abituano alla luce delle lampade al plasma, metto a fuoco le piante in tutta la loro rigogliosa bellezza: saranno circa 1.000 femmine alte due metri, con le radici immerse in un bagno di sostanze nutrienti e le foglie mosse dalla brezza dei ventilatori oscillanti. Davanti ai miei occhi ecco circa mezzo milione di dollari di erba.
Mi avvicino per annusare una delle infiorescenze, una cima fitta di un colore tra il marrone e il viola, striata di ciuffetti bianchi. I minuscoli tricomi trasudano resina ricca di cannabinoidi. Questa varietà è stata ibridata da Hague, ed è carica di THC. Le parti migliori saranno potate a mano, essiccate, trattate e impacchettate per la vendita in uno dei dispensari della Mindful.
Ma Hague è ansioso di mostrarmi una sala dove, nell’oscurità quasi completa, crescono tante giovani piantine, identificate con etichette gialle, coltivate solo a scopo terapeutico. Sono tutti cloni, talee di una pianta madre. Hague va fiero di questa varietà, quasi priva di THC ma ricca di CBD e altri composti che sembrano molto promettenti nel trattamento di malattie e disturbi come sclerosi multipla, psoriasi, disturbo post-traumatico da stress, demenza, schizofrenia, osteoporosi e SLA.
«Quasi non dormo la notte pensando alle potenzialità di queste varietà, prosegue Hague, sottolineando che la marijuana contiene molte sostanze – cannabinoidi, flavonoidi, terpeni – che non sono mai state studiate a fondo. «Può sembrare sciocco», prosegue, «ma sono convinto che la cannabis abbia una coscienza. È stanca di essere perseguitata, ed è pronta a mostrarsi in piena luce».
IL BIOCHIMICO
Cura miracolosa?
Oggi sappiamo che la cannabis può funzionare come palliativo per i malati di tumore, soprattutto perché attenua parte dei devastanti effetti collaterali della chemioterapia. È indubbio che l’erba possa alleviare la nausea e i dolori, stimolare l’appetito e facilitare il sonno. Ma addirittura curare il cancro? Fate un giretto su Internet e troverete centinaia di siti, se non migliaia, che lo danno per certo.
La maggior parte di questi resoconti non ha alcun fondamento scientifico, mentre altri sono bufale vere e proprie. Tuttavia in rete si trovano anche molti riferimenti a test di laboratorio che indicano i cannabinoidi come possibili agenti anticancro, e molti di questi conducono a un centro spagnolo diretto da tale Manuel Guzmán.
Guzmán è un biochimico che studia la cannabis da circa 20 anni. Vado a trovarlo nel suo studio alla Universidad Complutense de Madrid. Uomo affascinante, sulla cinquantina, parla velocemente ma a voce bassa, tanto che l’interlocutore è spinto ad avvicinarsi per sentire bene le sue parole. «Se un giornale titola “Il tumore al cervello sconfitto dalla cannabis”, non credeteci, è falso», dice.
«Ma voglio mostrarle qualcosa», aggiunge, voltandosi verso il computer. Sul monitor compaiono due risonanze magnetiche del cervello di un ratto. Le immagini mostrano una grossa massa nell’emisfero destro, causata dalle cellule tumorali umane iniettate nell’animale dai ricercatori di Guzmán. Il ratto, penso, è spacciato. «Questo animale è stato trattato con THC per una settimana», spiega Guzmán. «Ed ecco cos’è accaduto». Le due immagini che adesso occupano lo schermo sono normali. La massa non si è semplicemente ridotta; è scomparsa. «Come vede, il tumore non c’è più».
In questa ricerca Guzmán e i suoi colleghi, che da 15 anni studiano gli effetti dei composti della cannabis su animali affetti da cancro, hanno scoperto che il tumore è stato eradicato in un terzo dei ratti e si è ridotto in un altro terzo.
Scoperte del genere fanno molto rumore, e Guzmán è preoccupato che il suo studio possa generare false speranze nei malati di cancro e alimentare le speculazioni in rete. «Il problema è che i topi sono topi, e non abbiamo idea se questi risultati si applichino anche all’uomo».
Il laboratorio di Guzmán è interamente dedicato alla ricerca sugli effetti della cannabis sul corpo e sul cervello; qui non si studia solo il cancro, ma anche le patologie neurodegenerative e il modo in cui i cannabinoidi agiscono sul cervello in via di sviluppo. E in questo ambito i risultati della ricerca del gruppo sono inequivocabili: i topi nati da madri a cui erano state somministrate con regolarità alte dosi di THC durante la gravidanza mostrano seri problemi. Sono scoordinati, hanno difficoltà nelle relazioni sociali e sono più soggetti all’ansia.
L’équipe ha anche indagato il modo in cui le molecole della cannabis – nonché cannabinoidi come l’anandamide, prodotti dal nostro corpo – proteggono il cervello da vari tipi di attacchi, come i traumi fisici ed emotivi. «Ovviamente, il nostro cervello deve ricordare», spiega Guzmán. «Ma deve anche dimenticare certi eventi, quelli più spaventosi o inutili. L’uomo ha la necessità di dimenticare ciò che è dannoso per la sua salute mentale: una guerra, un trauma, un ricordo negativo. Il sistema dei cannabinoidi svolge un ruolo cruciale nel cancellare questi ricordi».
Ma tra tutte le ricerche effettuate da Guzmán è quella sul tumore al cervello che ha conquistato i titoli dei giornali, nonché l’interesse delle case farmaceutiche. Dopo anni di studio, la sua équipe ha constatato che una combinazione di THC, CBD e un farmaco convenzionale poco efficace di per sé chiamato temozolomide produce buoni risultati nel trattamento dei tumori al cervello dei topi. A quanto pare un cocktail di questi tre composti attacca le cellule tumorali in diversi modi, prevenendone la diffusione ma anche spingendole, in pratica, al suicidio.
Ora al St. James’s University Hospital di Leeds, in Inghilterra, è in corso un rivoluzionario studio clinico basato sulle ricerche di Guzmán. Un gruppo di neurooncologi sta trattando pazienti affetti da tumori al cervello aggressivi con temozolomide e Sativex, uno spray orale a base di THC e CBD.
Guzmán invita a non esagerare con l’ottimismo, ma ha accolto con favore la notizia della sperimentazione sull’uomo. «Restiamo obiettivi», dice. «Ma almeno nel mondo si sta diffondendo l’idea che, in termini terapeutici, la cannabis è uno strumento serio, promettente e clinicamente rilevante».
Ma la cannabis aiuterà davvero a combattere il cancro? «Se dovessi dar retta al mio istinto», conclude, «direi che è una possibilità concreta».
LA MADRE
Emigrazione medica
Le crisi di Addy cominciano nel maggio del 2013, quando la piccola ha appena sei mesi di età. Spasmi infantili, li chiamano. Le braccia le si irrigidiscono lungo i fianchi, il volto si paralizza in una maschera di terrore, gli occhi si muovono in maniera convulsa. «Era come vivere in un incubo spaventoso», racconta la mamma, Meagan. «È orribile, davvero orribile, vedere tua figlia che soffre e che ha paura e non poter far niente per impedirlo».
Così, dalla loro cittadina nel Maine, Meagan e il marito Kensi vanno a Boston per consultare dei neurologi. Le crisi epilettiche, stabiliscono i medici, sono dovute a una malformazione cerebrale congenita chiamata schizencefalia. Uno degli emisferi del cervello di Addy non si è sviluppato appieno in utero, causando la formazione di una fessura anormale. La piccola soffre anche di una sindrome correlata, l’ipoplasia del nervo ottico, causa dei movimenti degli occhi che non riescono a mettere a fuoco e, come rivelano altri accertamenti, l’ha resa quasi cieca. Quell’estate Addy viene colpita da 20, 30 crisi al giorno. Che poi diventano 100. Poi 300. «Temevamo di perderla», ricorda Meagan.
Seguendo il consiglio dei medici, i Patrick somministrano alla bambina forti dosi di anticonvulsivi. I potenti farmaci riducono il numero degli attacchi, ma fanno dormire la bambina per quasi tutto il giorno. «Addy non c’era più», racconta la madre. «Rimaneva sdraiata e dormiva tutto il tempo. Come una bambola di pezza». Nell’arco di nove mesi Addy viene ricoverata 20 volte.
Quando i suoceri suggeriscono a Meagan di tentare la strada della marijuana terapeutica, la donna è scandalizzata. «Parliamo di una droga illegale», ricorda di aver pensato. Ma fa comunque delle ricerche: un buon numero di prove aneddotiche dimostra che le varietà di cannabis con elevato contenuto di Cbd sono efficaci contro le crisi epilettiche. La letteratura medica, per quanto esigua, risale a molto tempo fa: già nel 1843 un medico britannico di nome William O’Shaughnessy riferiva come l’olio di cannabis avesse bloccato le continue convulsioni di un neonato.
Nel settembre 2013 i Patrick incontrano Elizabeth Thiele, neuropediatra di Boston che co-dirige uno studio sulle proprietà mediche del Cbd. Dal punto di vista legale Thiele non può prescrivere a Addy la cannabis né consigliarne l’uso. Ma raccomanda caldamente ai Patrick di valutare tutte le alternative possibili.
Incoraggiata, Meagan va in Colorado per incontrare i genitori di bambini epilettici a cui viene somministrata una varietà di cannabis chiamata Charlotte’s Web, dal nome di una bambina, Charlotte Figi, che ha risposto straordinariamente bene al trattamento con l’olio ad alto contenuto di CBD prodotto vicino a Colorado Springs.
Meagan resta molto colpita da ciò che vede in Colorado: la competenza dei produttori di cannabis, la solidarietà tra genitori che vivono lo stesso calvario, la qualità dei dispensari e la perizia dei laboratori che garantiscono formulazioni costanti nel tempo di olio di cannabis. Colorado Springs è diventata la mecca di un cospicuo numero di emigrati per ragioni mediche. Più di 100 famiglie i cui figli soffrono di malattie gravi hanno abbandonato il loro Stato per trasferirsi lì. Queste persone, molte delle quali associate alla non profit Realm of Caring, si considerano “rifugiati medici”. Molti non avrebbero potuto curare i figli nello Stato di residenza senza rischiare l’arresto per traffico di stupefacenti o addirittura per abuso su minori.
Alla fine Meagan decide di provare l’olio con alto contenuto di CBD e le crisi scompaiono quasi del tutto. Smette di somministrare ad Addy altri farmaci, ed è come se la bambina si svegliasse dal coma. «Può sembrare una cosa da niente», dice Meagan, «ma quando tua figlia sorride di nuovo dopo molti, molti mesi... be’, ti cambia la vita».
Lo scorso anno i Patrick hanno deciso di trasferirsi in Colorado. «Non è stata una scelta difficile», dice Meagan. «Se su Marte coltivassero qualcosa di utile per Addy, sarei in cortile a costruirmi un’astronave».
Incontro i Patrick alla fine del 2014, nella loro nuova casa nella zona nord di Colorado Springs. Addy sta meglio. Da quando assume l’olio di CBD non è stata più ricoverata in ospedale. Le crisi sono diventate più sporadiche e meno intense. Il movimento degli occhi è diminuito. Ascolta di più. Ride. Ha imparato ad abbracciare gli altri.
Qualcuno accusa i genitori di Realm of Caring di usare i figli come cavie, sostenendo che non esistono studi sufficienti e che molti dei risultati, se non la maggior parte, sono dovuti all’effetto placebo. «È vero, non conosciamo gli effetti a lungo termine del CBD e sarà necessario studiarli», commenta Meagan. «Ma di una cosa sono certa: senza CBD Addy sarebbe come un sacco di patate». Nessuno poi si pone domande, osserva la donna, sugli effetti a lungo termine di un farmaco molto diffuso che è stato prescritto alla sua bambina di due anni. «È coperto dall’assicurazione, non ci sono problemi», afferma. «Ma crea dipendenza, è molto tossico, ti trasforma in uno zombie e può persino ucciderti. Eppure, è perfettamente legale».
Thiele spiega che i primi risultati della ricerca sul CBD sono estremamente incoraggianti. «Non è la panacea, non funziona con tutti», tiene a precisare la neurologa. «Ma sono colpita. Può essere efficace per molti pazienti. Diversi bambini del mio studio non hanno più crisi da oltre un anno».
Oggi la situazione dei Patrick è nettamente migliorata, sono contenti come non lo erano da anni. «Addy è tornata tra noi», afferma Meagan. «Se non l’avessi vissuto sulla mia pelle, non lo avrei creduto possibile. Non penso che la cannabis sia una cura miracolosa, ma sono convinta che dovrebbe essere a disposizione dei neurologi di tutto il paese».
IL GENETISTA
Costruire la mappa
«È una pianta estremamente interessante e preziosa», dice l’esperto di biologia evolutiva Nolan Kane. «Esiste da milioni di anni ed è una delle più antiche piante coltivate dall’uomo. Eppure molte domande restano ancora senza risposta. Da dove è arrivata? Come e perché si è evoluta? Come mai contiene tutti quei composti? Non sappiamo neppure quante specie ne esistano». Siamo in una serra-laboratorio dell’Università del Colorado a Boulder, di fronte a una decina di piante di canapa che Kane si è procurato a scopi scientifici. Sono piantine esili, niente a che vedere con le infiorescenze rigogliose che mi ha mostrato Hague. E come gran parte delle varietà di canapa da fibra contengono livelli molto bassi di THC. La presenza di queste piante nel laboratorio di un importante ateneo è il risultato di anni di lotte per ottenere l’approvazione da parte delle autorità federali e universitarie. Per ora Kane ha il permesso di coltivare solo varietà di canapa da fibra. Per il resto la sua ricerca utilizza DNA di cannabis fornita da coltivatori del Colorado. Kane sfiora una delle piante dall’aspetto innocuo. «La canapa produce fibre di ottima qualità», dice. «Ha una biomassa molto alta che nutre il suolo e non ha particolari esigenze di coltivazione. Ne importiamo tonnellate ogni anno dalla Cina e dal Canada, ma la legge federale ci impedisce di coltivarla».
Il genetista Kane studia la cannabis dalla sua prospettiva: ne analizza il DNA. Ha al suo attivo studi sul cioccolato e sul girasole, di cui è riuscito a mappare il genoma ricostruendo una sequenza di oltre tre miliardi e mezzo di nucleotidi. Adesso si occupa di marijuana, pianta che considera molto più interessante benché la sequenza del genoma sia molto più breve, circa 800 milioni di nucleotidi.
Un profilo frammentario del genoma della cannabis già esiste, ma è suddiviso in circa 60 mila pezzi. Kane intende assemblare quei frammenti nell’ordine giusto, un obiettivo ambizioso raggiungibile solo in diversi anni di lavoro. «Per rendere l’idea, è come se avessimo 60 mila pagine di quello che potrebbe essere un bel libro, ma tutte sparse sul pavimento», spiega. «Al momento non sappiamo come quelle pagine vadano collegate per comporre una buona storia. Avverto una certa pressione, perché la ricerca avrà enormi implicazioni e ogni aspetto del nostro lavoro sarà sottoposto a un esame approfondito. Sappiamo di essere sotto osservazione. La gente si aspetta dei risultati».
Quando la mappa sarà completata, altri genetisti intraprendenti potranno usarla in molti modi; si potranno per esempio creare varietà con livelli elevati di quei rari composti della pianta che hanno proprietà terapeutiche importanti.
Kane mi accompagna a visitare il laboratorio. Sul suo volto e su quello dei suoi giovani colleghi si legge grande entusiasmo; qui si respira un’atmosfera da start-up. «Ci auguriamo che questo lavoro sulla cannabis implichi una trasformazione, non solo della nostra conoscenza della pianta ma anche del cervello, della neurologia e della psicologia umana. Speriamo che rivoluzioni la nostra conoscenza della biochimica dei suoi composti, e che abbia un forte impatto su settori diversi, tra cui la medicina, l’agricoltura e i biocarburanti. La canapa potrebbe persino trasformare la nostra dieta: dai semi si può ricavare un olio molto salutare e ricco di proteine. Con la cannabis», conclude Kane, «c’è solo l’imbarazzo della scelta».
Scrittore e giornalista, Hampton Sides ha scritto un articolo sull’isola di Wrangel per il numero di maggio del 2013. Lynn Johnson è collaboratrice abituale del magazine, per il quale ha realizzato 23 servizi fotografici.