Alessandro Plateroti, Il Sole 24 Ore 24/6/2015, 24 giugno 2015
IL CORAGGIO DI FARE POLITICA INDUSTRIALE NEL CREDITO –
Quando un governo si occupa di banche, soprattutto se lo fa in Italia, ha la ragionevole certezza di finire sotto attacco: a meno che non si tratti di una stretta sui bonus o di un aumento delle tasse, l’intervento normativo sul credito è normalmente bollato come «regalo alle banche». Poco importa che si tratti di interventi correttivi in campo fiscale o giuridico, di pezze normative su errori del passato o di azioni che rendono il sistema più competitivo e allineato alle regole alla best practice internazionale: il sostegno al credito, in Parlamento o in piazza, è considerato quasi un tabù. Dando per scontato che anche il governo Renzi sia ben consapevole delle reazioni populiste a cui va incontro, le misure salva-credito varate ieri dal Consiglio dei ministri rappresentano non solo una scelta politicamente coraggiosa, ma anche il primo vero intervento di politica industriale in un settore storicamente strategico per la nostra economia, polmone finanziario delle imprese e cassaforte indiscussa del risparmio delle famiglie.
Le due azioni decise ieri dal Consiglio dei ministri - riduzione a un solo anno (dai cinque precedenti) per la defiscalizzazione delle perdite sui crediti e semplificazione delle norme sul recupero delle garanzie sui prestiti inesigibili - rappresentano un passo importante non solo per i bilanci e l’operatività delle banche, ma anche un passo fondamentale nella manovra del governo per riattivare i rubinetti del credito dopo quasi 7 anni di credit crunch. Sul fronte fiscale, basti pensare che negli ultimi 10 anni le banche sono state costrette a spalmare su un arco di 17 anni (è con Enrico Letta che diventarono 5) la defiscalizzazione delle perdite maturate in un singolo esercizio. Poiché all’estero, ovviamente, le perdite maturate in un certo anno sono compensate fiscalmente nello stesso esercizio, le banche italiane hanno chiaramente sofferto di una grave asimmetria fiscale rispetto ai loro concorrenti, con chiare penalizzazioni competitive. A questa prima distorsione va sommata la seconda: l’estrema difficoltà nel recupero delle garanzie sui crediti.
Continua pagina 2 Alessandro Plateroti
Continua da pagina 1 Questo fattore, portato spesso ad esempio dalle imprese estere come deterrente all’investimento in Italia, è alla base non solo della prudenza delle banche nella concessione del credito ai clienti meno solidi, ma è anche un elemento-chiave nel progetto di creazione della bad bank italiana. Quando infatti una banca è costretta ad aspettare una media di 7,4 anni prima di poter incassare la garanzia su un credito in sofferenza, la reazione istintiva è quella di ridurre al minimo il rischio connesso con il prestito. Al sud per esempio, le banche affermano che il recupero del credito è praticamente impossibile: se al Nord occorrono circa 2 anni per l’incasso, in una città come Messina l’attesa sale a 22 anni. La conseguenza è duplice: se da un lato c’è meno credito per imprese e famiglie, dall’altro le banche si trovano in portafogli e nei conti crediti deteriorati difficilmente vendibili sul mercato dei fondi specializzati, ostacolando così le cosiddette pulizie di bilancio. Ecco allora che la misura per ridurre a un anno la defiscalizzazione delle perdite, sommata alla semplificazione del processo di recupero delle garanzie, diventano due tasselli-chiave dello stesso mosaico: rendere il sistema bancario più forte aumentando il valore dei suoi asset più deboli. Tutto ciò diventa politica industriale se si contestualizzano i due interventi nel più vasto progetto della bad bank: una sofferenza che ha una forbice più stretta tra il suo valore in bilancio e il suo prezzo di mercato è meno penalizzante da vendere e più attraente per il compratore.
Per completare questa manovra manca ora solo un tassello: la riforma del calcolo degli interessi sullo scoperto in conto corrente. Secondo le norme attuali, infatti, una banca che contesta a un cliente lo sfondamento del fido non può trasformare gli interessi dovuti sulla somma in eccesso in disponibilità aggiuntiva del fido stesso: applicare nuovi interessi su interessi già maturati è infatti un reato. O almeno lo sarebbe: il Cicr non ha mai emanato infatti i regolamenti attuativi, lasciando le banche e la giurisprudenza nell’incertezza. Non a caso, due tribunali hanno condannato le banche per anatocismo, mentre altre due corti le hanno assolte per la mancanza di regole Cicr, come del resto prevedeva la stessa legge. Il paradosso di questa situazione - unica in Europa - è che un cliente può oggi chiedere a una banca di prestargli dei soldi (con interesse) per coprire gli interessi maturati sullo sfondamento del fido con un’altra banca. Poichè la stessa operazione in una sola banca non è invece possibile, molti istituti preferiscono chiudere un fido piuttosto che esporsi al rischio di azioni legali. Una distorsione palese che prima o poi va risolta.
Gli Istituti di credito italiani, per concludere, pur avendo operatività e orizzonti analoghi ai concorrenti esteri, hanno però un connotato tutt’affatto particolare, e cioè la tensione verso un accentuato radicamento sociale, più pregnante e prezioso della semplice articolazione territoriale derivante dalla burocratica espansione della rete commerciale. In un Paese da sempre caratterizzato da un accentuato pluralismo economico e sociale, da grandi ma anche da polverizzate realtà imprenditoriali, dal no profit, per far banca occorre “far corpo unico” con il territorio, nel senso di operare non soltanto in raccordo con il cliente, ma anche comprendendo le esigenze e le aspirazioni della comunità locale e aderendovi con intelligenza, senza abbandonare gli obiettivi di redditività di gestione. Insomma, chie pensa che l’azione del governo è un «aiuto alle banche» farebbe bene a ricordare che ogni indebolimento delle istituzioni creditizie significa indebolimento del tessuto economico e produttivo.