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 2015  giugno 23 Martedì calendario

In via Napoli ci sono una lavanderia, una rivendita di pasta all’uovo e un’orologeria. Laura Antonelli faceva scorrere le ore al numero 27 barra bis

In via Napoli ci sono una lavanderia, una rivendita di pasta all’uovo e un’orologeria. Laura Antonelli faceva scorrere le ore al numero 27 barra bis. I mattoni rossi. I parasole a contrastare il caldo. Le parabole indirizzate al cielo di Ladispoli. Al primo piano di una palazzina affacciata su una strada stretta viveva l’attrice che era rimasta sola e, come ti dicono i pochi che transitando veloci elemosinano due parole, “sola voleva restare”. Laura Antonelli se n’è andata qui all’inizio dell’estate. Dopo aver perso ville, miliardi e libertà e aver riguadagnato il solo lusso della reclusione volontaria. Dietro la tenda bianca a fiori, oltre le tapparelle ocra, il balcone con la caldaia arrugginita a vista e le scritte con il pennarello di qualche amore lontano tra Massimo e Alessia, c’era una donna che nessuno più conosceva. Morta in un punto imprecisato della notte. Trovata esanime a un’ora acerba del mattino dalla badante che il Comune le aveva messo a disposizione. E – giurano i pochi giornalisti a caccia di dettagli compatiti a mezza bocca dai passanti: “Che brutto mestiere fanno, io non ce la farei mai a suonare ai campanelli” – forse costretta all’ultimo oltraggio dell’esame autoptico nonostante la certezza dell’arresto cardiaco. Si era spogliata di tutto e ogni battito di cuore si era vista togliere di dosso dalla vita, Antonaz Laura poi diventata Antonelli, esule istriana del 1941 precipitata con la sua bellezza sul tendone di un cinema che l’aveva usata per colorare il proprio circo. Spolverando scaffali in equilibrio precario, da domatrice meno inconsapevole di quanto la divisa non facesse presagire, fece vacillare Turi Ferro e alcuni milioni di connazionali in Malizia. Prima e dopo, tra un’irruzione in Carosello bevendo Coca-Cola e una fuga con Belmondo, dimostrò di essere attrice per Visconti e per Dino Risi. In Sessomatto placava gli istinti di Giancarlo Giannini tra i canali di Venezia: “Non esser materiale, Gesù ci guarda”, poi alla mistica si dedicò davvero quando degli anni belli inghiottiti dagli errori, dalla polvere, dall’inadeguatezza, dall’ingenuità, dalle accuse sproporzionate e dalle cronache che la volevano invariabilmente pazza o dissipata, restò solo la croce da portare. Laura Antonelli la trascinava con dignità. Senza dare fastidio. Senza urlare. Ascoltando Radio Maria: “I primi tempi – ti dicono dalle finestre – a voce alta. Poi sempre più bassa”. Della partita di giro che le aveva restituito interdizioni, conti bancari congelati, tutori e oblìo, non voleva ricordare niente. Non c’erano più frammenti da vedere, racconti da elargire o specchi in cui rifrangere l’immagine e anche la tv era stata regalata come molto altro: “Un giorno la vidi portare via dagli spazzini”, dice una signora bionda sinceramente dispiaciuta: “Ma è nuova, perché la gettate?”. “Non la buttiamo, la signora Antonelli non la vuole più”. Con 500 euro di pensione, una branda e le preghiere, Laura aspettava la fine a porte chiuse. L’ultima l’aveva aperta a un maresciallo dei carabinieri in una notte del ’91: “Venga, le faccio vedere la festa”. Era stata arrestata. Lapidata come spacciatrice. Infine assolta. Consumava, Laura Antonelli. E sapeva come farsi consumare. Gianni Palmieri de L’ortica web, 20.000 copie in edicola tutte sostenute dalla pubblicità e un aggiornamento costante sulle vicende di un litorale che da Il Sorpasso ai mariti fedifraghi di Germi era stato spesso in primo piano sullo schermo di una sala, era stato l’ultimo giornalista ad incontrarla e a intervistarla. Conosceva alcune delle persone che aiutavano quotidianamente Laura Antonelli. La conobbe. Fu lei a telefonargli: “Adesso parlo io”. Lui: “So che è incredibile, ma è la verità” tentò di sottrarsi. Poi varcò l’ingresso di via Napoli. Trovo una donna dei cui antichi tratti “si riconoscevano solo gli occhi”. Conversazione sincera in cui più che al rimpianto, Antonelli guardava alla pace: “I soldi non mi servono, non ne ho bisogno. Vivo con quanto mi basta, il tempo del lusso è finito per sempre. Non mi servono più panfili, ville e bella vita. Passo le mie giornate leggendo, pregando e cercando di aiutare come posso il prossimo”. Ringraziava Lino Banfi che per lei aveva chiesto invano l’applicazione della Bacchelli, sognava ancora di viaggiare lamentando le privazioni della legge, guardava con serena distanza ai passi troppo lunghi. “Sposarmi a 24 anni senza capire cosa stavo facendo. Purtroppo ho sempre seguito il mio cuore, può capitare di rivolgere il sentimento alle persone sbagliate”. Davanti al cimitero, oltre il residence Miami, molto più in là del Bar Mexico che chiuse un anno e mezzo fa serrando sui vizi di Laura Antonelli persino la tentazione di un caffè al banco, una telecamera fissa l’ingresso. Oltre il cancello, proprio qui a Ladispoli, dove Carlo Verdone bramava di arrivare a Ferragosto e Diego Abatantuono arava da Attila il terreno, c’è Laura Antonelli. Nata 73 anni fa a Pola e volata via tra non pochi flagelli in un giorno di sole, malinconia e assenza di vento. L’Aurelia è un fiume di traffico e rilevatori. La Torre Flavia guarda un mare nero come la sabbia. Gli aerei passano bassi verso Fiumicino. I biglietti agli amici più cari sono stati scritti. Da domani, ci sarà silenzio. Ladispoli promuoverà qualche iniziativa. “Poi tutti verranno a salutarla, ma fino a ieri qui non c’era nessuno. Ci vuole rispetto. Ma anche decenza”, dice una signora con gli occhiali. Guarda dall’alto di via Napoli. È pomeriggio. E in giro non c’è anima viva. Malcom Pagani, il Fatto, 23/6/2015