Maurizio Ferraris, la Repubblica 23/6/2015, 23 giugno 2015
“APOCALITTICI E INTEGRATI” QUEL CHE RESTA DI UN CLASSICO
Una delle opere più celebri nate dalla mente di Umberto Eco. Ma anche un metodo, un modo di guardare la realtà, che hanno lasciato il segno. Ecco perché, a oltre mezzo secolo dall’uscita, “Apocalittici e integrati” continua a generare riflessioni, e approfondimenti. Come dimostra il volume collettivo a lui dedicato che esce da DeriveApprodi in collaborazione con Alfabeta 2, a cura di Anna Maria Lorusso: “50 anni dopo Apocalittici e integrati”. Anzi, ormai 51. Il volume risale infatti al 1964, e ha una origine accademica. Il libro avrebbe dovuto intitolarsi “Psicologia e pedagogia delle comunicazioni di massa”, come la cattedra messa a concorso, proprio come
la sua Opera aperta , di due anni prima, avrebbe dovuto intitolarsi Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, declassato a sottotitolo. In entrambi i casi, la scelta del titolo è dovuta, come anche Eco racconta in questo libro, a Valentino Bompiani. Ma la teoria è tutta dell’autore, che reagendo alla duplice contingenza di un concorso e di un titolo memorabile, ha elaborato delle categorie di cui tutt’ora ci serviamo, con la stessa naturalezza con cui ci serviamo di “classico” e “romantico”. L’alternativa tra apocalittici e integrati ha saputo attraversare e superare l’attualità, un po’ come le Considerazioni inattuali di Nietzsche. Possiamo verificarlo facilmente sulla base di quattro differenze tra oggi e il 1964 che non sono bastate a datare questo libro.
La prima riguarda gli oggetti. Per molti lettori di oggi il personaggio a fumetti Steve Canyon è non meno ignoto di Carneade. Eppure le riflessioni di Eco su di lui restano ancora valide in assenza dei loro referenti. È la caducità della cultura popolare. Chi scrive un trattato su Angelo Grillo, benedettino vissuto tra Cinquecento e Seicento, autore di poemi sacri e (sotto lo pseudonimo di Livio Celiano) di madrigali erotici, può contare su una lunga rendita di posizione. Fra trecento anni, qualche dotto saprà chi era Grillo, e forse leggerà il trattato. Lo stesso non accadrà a Steve Canyon, e non è neppure escluso che la sopravvivenza di quel nome sarà legata al fatto di essere citato in Apocalittici e integrati.
La seconda riguarda l’anticonformismo della scelta. C’è una sola cosa più caduca della cultura popolare, ed è l’avanguardia. La dodecafonia è irrimediabilmente più invecchiata di Steve Canyon, e invecchiatissime appaiono le Lezioni di sociologia della musica di Adorno che volevano convincere il lettore che il solo ascoltatore adeguato della musica fosse lui, Theodor, insieme al Barone di Charlus, che però era una entità fittizia. Perciò chi oggi legge il libro di Eco ha difficoltà a capire l’ereticità (nel senso etimologico di “scelta”) e la sincerità che ci voleva a parlare di fumetti o di letteratura di genere.
Eco — ed è la terza differenza — ha portato più volte l’attenzione sul cambiamento radicale della cultura di massa. Non solo della sua valutazione accademica ( «ma pensa se le canzonette me le recensisse Roland Barthes», cantava sconsolato Guccini: poi gli hanno dato una laurea honoris causa), ma del suo stesso concetto. Che cos’è la cultura di massa all’epoca del web, in cui non è, principalmente, cultura confezionata per le masse, ma soprattutto cultura che emerge dalle masse magari rielaborando temi preesistenti, un po’ come le culture popolari pre-industriali? E cosa succederebbe oggi a James Bond se la cooperazione tra autore e lettore avvenisse già nella scrittura del libro, come in
Cinquanta sfumature di grigio ? Non uscirebbe mai dalla stanza d’albergo in Giamaica.
Un’ultima differenza. Tra il 1964 e oggi si è assistito venir meno dell’ottimismo che aveva spinto molti (ma non Eco) ad associare la cultura di massa all’idea di una umanità naturalmente buona, davanti a cui sorgeva il sole dell’avvenire. Un ottimismo che, all’apparire del web, aveva indotto a vederci l’espressione di una intelligenza collettiva. Non è stato così: invece che il sole dell’avvenire abbiamo avuto il populismo mediatico e l’intelligenza collettiva si è spesso trasformata in stupidità di massa.
Recentemente Eco ha sostenuto (insieme a tante altre cose che non sono state recepite) che il web è diventato il luogo in cui si sfogano legioni di imbecilli. Non è un passaggio dallo Sturm und Drang al classicismo, dall’incendiario al pompiere, ma un segno di coerenza. Interessarsi alla cultura di massa non significa sottomettercisi, come quei professori parodiati da Don De Lillo in Rumore Bianco, che leggono soltanto le istruzioni delle scatole dei cereali e aprono dei dipartimenti di Elvis Studies. Significa capire che nella cultura di massa ci può essere molta più ricchezza che nell’accademia e nel suo proseguimento nell’avanguardia, ma anche l’orrido e l’aberrante (i Protocolli dei savi anziani di Sion e Mein Kampf sono a tutti gli effetti cultura pop). O semplicemente il banale. E che dunque in ogni studioso della cultura di massa deve convivere l’integrato, capace di capire quanta ricchezza ci può essere nel pop, e l’apocalittico, capace di capire che l’imbecillità è imbecillità anche quando non è di élite (come per lo più avviene), ma di massa. Ecco perché, malgrado il mondo a cui si riferisce Apocalittici e integrati sia oggi poco meno remoto dell’universo di Anna Karenina, continuiamo a leggerlo. Che sia un classico?
Maurizio Ferraris, la Repubblica 23/6/2015
IL LIBRO: 50 anni dopo Apocalittici e integrati (DeriveApprodi pagg.149 euro 16)