Fabrizio Salvio, SportWeek 20/6/2015, 20 giugno 2015
LA PARABOLA DEL PESCATORE
[Stefano Sturaro]
Nella Nazionale Under 21 che si gioca l’Europeo in Repubblica Ceca, Stefano Sturaro è quello che chiama a tavola i compagni. Che ricorda loro l’orario dell’allenamento. È il leader che controlla che tutto sia in ordine, che nello spogliatoio ogni cosa fili secondo le regole. È quello che parla poco, ma quando apre bocca ti guarda fisso negli occhi. È quello che di sé dice: «Intelligente? No, ma sono un tipo sveglio». È quello che a 22 anni ha fatto il salto dal Genoa, dove era titolare fisso, alla Juve senza apparentemente risentirne: un mese di apprendistato (trasferito il 2 febbraio, ha esordito il 14 marzo), poi 12 partite in campionato e 2 in Champions, compresa la semifinale di andata contro il Real giocata da titolare. Numeri che certificano carattere, personalità e voglia. Davanti a un taccuino e a un registratore aggiunge una serietà e una compostezza ai limiti dell’introversione. Che non fanno rima con banalità. Lo osservi e ti chiedi se sia mai stato davvero bambino.
Sturaro, cosa c’è di peggio di un’intervista?
«Sentire Federica, la mia ragazza, che mi stressa perché lascio la casa in disordine, non pulisco mai...».
Dopo Juve-Real disse: «L’incoscienza mi ha dato una mano». Eppure lei sembra il contrario di una persona incosciente...
«Forse mi sono espresso male. Per “incoscienza” intendevo il fatto di essere stato catapultato in una partita tanto importante quasi senza rendermene conto. Ho capito dove fossi al momento della musichetta: mi sono venuti i brividi. E mi sono sentito orgoglioso di me stesso».
Quali immagini le sono venute in mente?
«I tempi di Modena, quando non sapevo cosa fare della mia vita. Quello doveva essere il mio trampolino di lancio, dalla Primavera del Genoa alla Serie B. E invece due infortuni gravi mi tagliarono le gambe: giocai solo 8 partite. Devo ringraziare il Genoa, mister Gasperini che mi volle con sé. Se non fossi tornato nella società dove ero cresciuto, ora sarei a lavorare da qualche parte».
A fare cosa?
«Sarei dovuto tornare a scuola. Ma di fare le serali non avevo voglia. A Sanremo, la mia città, alle superiori avevo fatto il primo anno di Agraria. Mi sarebbe piaciuto diventare floricoltore, lavorare in un vivaio di piante. Arrivato al Genoa, 5 anni fa, ho cambiato obiettivo. Ho pensato che avrei potuto campare di pallone».
Quanto c’è dell’educazione ricevuta nel suo carattere?
«Papà è diabetologo, mamma veterinaria. Sempre presenti, mai ossessivi. Sono sempre stato libero di fare le mie scelte, i miei errori. Da loro ho ricevuto qualche consiglio. Il resto l’ho fatto io».
Cioè?
«Sono quello che sono perché abituato a cavarmela da solo. Sono andato via da casa a 17 anni, ho avuto un sacco di guai fisici fin da ragazzino. Avevo un osso in più all’attacco della tibia in entrambi i piedi, che dopo una ventina di minuti di partita si gonfiavano tanto da costringermi a smettere. Avevo dolore, ero spaventato e arrabbiato. È passata quando mi hanno operato. Prima a un piede e poi a un altro, altrimenti sarei dovuto stare su una sedia a rotelle per mesi, e non volevo. Così ho passato un anno sulle stampelle, ma almeno ero in piedi. Sono esperienze che ti cambiano e ti rendono più duro. In famiglia, quello forte sono io. I miei genitori sono diversi. E anche i miei due fratelli: sono più debolucci».
Ha fatto qualche stupidaggine da adolescente?
«Sì, la più grande è essere scappato dalla Primavera del Genoa per tornare a Sanremo. Mi mancavano famiglia e amici. Sentivo i miei compagni che uscivano e si divertivano mentre io dovevo andare a letto presto. Ho preso e sono andato via. Michele Sbravati, responsabile del settore giovanile, è venuto dai miei e mi ha riportato indietro».
Quanto pesa la maglia dell’Under 21? Più o meno di quella della Juve?
«La Nazionale è sempre la cosa più importante perché rappresenta il Paese, ma con le brutture del nostro calcio, a cominciare dalle scommesse clandestine, il peso di questa maglia va oltre. E non è facile da sopportare».
Cosa ruberebbe a Pirlo?
«La sua tranquillità».
A Pogba?
«La sua tecnica».
A Marchisio?
«Il suo amore per la Juve».
A Vidal?
«I suoi gol».
Cosa vuol dire Juventus, per lei?
«Cambiamento. È cambiata la mia vita: negli ultimi tre mesi non ho praticamente avuto giorni liberi, si giocava sempre, campionato-coppe-campionato. Sono cambiate le pressioni: ora sono molto maggiori. Ma a me piace dimostrare qualcosa in più ogni giorno».
Alla sua età, meglio prima alternativa nel centrocampo della Juve o titolare in un club meno importante?
«Sono arrivato alla Juve a febbraio, non posso lamentarmi di quanto ho giocato. Dico che, per migliorare, un giovane deve sbagliare. E può farlo solo giocando».
Con un buon Europeo cambierebbero le prospettive dei giovani di A?
«Cambierebbe qualcosa per il giocatore, che avrebbe più mercato anche all’estero, ma non per il movimento. Ci sono decine di giovani che meriterebbero di più, ma i club puntano sullo straniero perché costa meno e sul calciatore anziano perché in teoria dà più garanzie».
Lei è appassionato di pesca: qual è stata la sua preda più grande?
«Un tonno di 60 chili».
Fortuna?
«No, per un pesce così devi prepararti».
Pesca da solo?
«No, con Bruno Chiuso, ex pescatore professionista. Stiamo in silenzio, penso ai fatti miei e zero al calcio: ne ho fin sopra ai capelli. Ma quando tiri su qualcosa insulti l’altro, perché è una gara. E io ho la competizione nel sangue».