Emanuele Trevi, Corriere della Sera 21/6/2015, 21 giugno 2015
L’OSSESSIONE DEL LABIRINTO
Nel cinema come in ogni altra arte, i frammenti di poesia pura, con tutta la loro follia e la loro essenziale gratuità, esplodono all’improvviso come fuochi d’artificio, come sublimi e imponderabili scherzi dell’immaginazione. In questo mondo dominato dalle tristi regole dell’efficacia e dello storytelling , possono sembrare uno spreco, eppure proprio in loro consiste la vera posta in gioco. Perché alla fine dei conti, quello che ci si porta a casa e che rimane nella memoria non è mai una trama, ma un’illuminazione, un gesto d’anarchia, un buco nel muro del senso comune. A quest’ordine raro e prezioso di esperienze appartiene la corsa di Salma Hayek nel labirinto del palazzo di Donnafugata, all’inizio del bellissimo Racconto dei racconti che Matteo Garrone ha cavato fuori dallo scrigno delle fiabe di Basile.
Di per sé, il labirinto di Donnafugata è un’anomalia, come solo la mente bizzarra di un aristocratico siciliano dell’Ottocento poteva partorire, in barba al Verismo e a tutte le altre effimere seduzioni della Modernità. La bellezza particolare del manufatto si deve alla povertà del materiale di costruzione, quei muri di pietre e calce come ce ne sono infiniti in tutte le campagne del Mezzogiorno. Con sensibilità di pittore, Garrone mette al centro di quel dedalo grigio, che armonizza sapientemente linee curve e perpendicolari, il sontuoso broccato di Salma Hayek, regina che gioca felice a nascondino col suo unico figlio — nel posto peggiore che esista al mondo, decisamente, per giocare a nascondino. Ma ad ogni bivio, l’umore cambia, l’allegria svanisce come se in ogni gioco fosse nascosto un nocciolo d’angoscia che prima o poi finirà per prevalere. Ed ecco che l’occhio del regista cambia prospettiva, e dai corridoi del labirinto si libra in alto, concedendoci finalmente la visione d’insieme del suo disegno e in mezzo a questo, immobile e scoraggiata, la regina edipica che ancora una volta non è riuscita a raggiungere il figlio e se ne sta sola e immobile nella sua sconfitta, come un nuovo Minotauro.
Non c’è bisogno di una cultura da cinefilo per afferrare, nella sequenza di Garrone, anche l’omaggio a un’altra caccia nel labirinto, dove è un papà a inseguire suo figlio, con intenti molto più bellicosi della regina di Basile. In Shining , il grande labirinto dell’Overlook Hotel non è fatto di muri, ma di siepi di sempreverdi, come nel labirinto di Fontanellato appena inaugurato da Franco Maria Ricci. Ma il perpetuarsi di figure e situazioni è spesso ingannevole, perché suggerisce l’idea di una coerenza e di una durata nell’immaginario, che invece proprio nelle ripetizioni e nelle citazioni rivela i suoi strappi e i suoi cambi di rotta. Da questo punto di vista, il tributo di Garrone a Kubrick è più rivelatore di interi trattati di storia del pensiero e dell’estetica. Fra il labirinto psicotico di Shining e il labirinto-ossessione del Racconto dei racconti passa la stessa differenza che c’è tra un corpo vivo e il suo fantasma. In altre parole, tra il 1980 e il 2015 deve essersi verificato un sisma capace di scuotere fin dalle fondamenta uno dei simboli più resistenti e ricchi di senso della storia umana.
Psicosi e Illuminismo
Il 1980 non è solo l’anno di Shining , ma anche quello di un altro labirinto destinato a fare epoca: quello immaginato da Umberto Eco nel Nome della rosa . Volendo usare una formula semplificatrice, potremmo dire che se quello di Kubrick è un labirinto «psicotico», il perfetto riflesso speculare della mente malata del protagonista, quello eruditissimo di Eco è un labirinto «illuminista», più vicino alla concezione antica perché prevede non soltanto la possibilità di smarrirsi al suo interno, ma anche quella di percorrere senza errori la via che conduce all’uscita. Trovando infine, tra induzioni e deduzioni, la chiave dell’enigma. Nei celebri termini di un saggio di Italo Calvino pubblicato nel 1962, si tratta insomma di una «sfida al labirinto» anziché di una «resa al labirinto». Ancora un passo a ritroso nella grande letteratura del Novecento e ci troviamo nel 1941, l’anno in cui Jorge Louis Borges compone uno dei suoi racconti più famosi, Il giardino dei sentieri c he si biforcano , nel quale il labirinto è un vecchio libro cinese, ma anche un labirinto in senso letterale, e insieme una perfetta immagine del futuro, con tutte le sue ramificazioni di possibilità scaturite da ogni singolo evento del presente. Si potrebbero citare altre opere, letterarie e non per rafforzare l’impressione che l’epoca d’oro del labirinto sia stata la modernità nel suo lungo e fulgido tramonto (non importa se nei termini irrazionalistici della «resa» che tanto facevano orrore a Calvino, o in quelli di una «sfida» che la complessità del mondo sembrava rendere eroica, ma pure improbabile e chimerica).
Tanto più che il Novecento non è stato solo il secolo delle invenzioni più ardite del futuro, ma anche l’epoca umana in cui più luci sono state gettate nelle tenebre remote del passato. E mentre uomini come Borges e Calvino (ma anche come Carl Gustav Jung) facevano del labirinto uno strumento cognitivo difficilmente sostituibile, l’opera meno visibile di archeologi e filologi riscopriva le tracce di un’esperienza mitica e religiosa che sul labirinto e sui suoi significati era completamente incentrata. Visto che celebriamo volentieri delle ricorrenze, non è senza significato ricordare che esattamente sessant’anni fa, nel 1955, Leonard R. Palmer, insegnante di lingue indoeuropee a Oxford, scioglieva i primi nodi di quell’enigma che era la scrittura micenea, dimostrando una volta per tutte l’importanza di Creta e della sua civiltà nella storia spirituale e religiosa occidentale. Quei caratteri incisi su tavolette di argilla non ci restituirono un nuovo Omero, ma un frammento di sapienza talmente originario che, al solo trascriverlo in una lingua moderna, si prova la sensazione di accendere una lampadina nella notte dei tempi. Si tratta di poche parole, una semplice prescrizione di un rituale: «Miele alla signora del labirinto». Abbastanza facile fu l’identificazione di questa «signora» con Arianna, figlia di Minosse e sorellastra del Minotauro. Ma quelle parole finalmente decifrate erano come il pezzo mancante di uno sterminato puzzle di testimonianze figurative e letterarie. Fu il più grande grecista della sua epoca, Károly Kerényi, a utilizzarle per ricomporre il quadro più credibile. Così come il labirinto poteva essere un edificio, poteva essere anche una danza. Sia la mappa dell’edificio che il movimento della danza supponevano un itinerario che si dirigesse verso il centro e poi cambiasse direzione, come un viaggio di andata e ritorno nel mondo dei morti, e dunque un’iniziazione, l’inizio di una nuova vita.
La metafora della rete
Nel suo viaggio nei secoli, il labirinto perse ben presto l’intensità, quasi si potrebbe dire la violenza, di quei significati originari. Ma, tornando al 1980 di Shining e del Nome della rosa , difficilmente si potrebbe indicare un vecchio simbolo così in buona salute, così pronto all’uso, così capace di produrre nuove immagini del mondo. Nessuno si sarebbe potuto immaginare che i due frutti dell’immaginazione di Stanley Kubrick e Umberto Eco avrebbero, in qualche modo, chiuso un’epoca. L’unica forza che avrebbe potuto scalzare dal suo trono il vecchio leone era una metafora più efficace. Molto meno profonda magari, molto meno densa di implicazioni millenarie e di profonde filosofie, ma semplicemente più efficace. Non è forse un caso che il 1980 sia un po’, nella nostra storia, come una soglia, o meglio un’alba: quella dell’età digitale. Una tale rivoluzione non poteva che affermarsi attraverso un’immagine, che ne rendesse percepibile la sua quintessenza. E se il labirinto trovò probabilmente il suo primo modello nel mondo organico, cioè nei viluppi delle viscere degli animali sacrificati, la rete all’opposto si ispira al mondo disincarnato delle invenzioni e dell’artificio.
Si potrebbe definire la rete come un labirinto malato, e in ogni modo privo di una delle sue funzioni fondamentali, quell’inversione di marcia che consente di raggiungere l’uscita. Perché, come tutti sappiamo, la rete non è un organo, e cresce semplicemente per addizione, nodo dopo nodo e connessione dopo connessione. Tutta intenta ad estendersi e a replicare se stessa, non ha previsto nessuna via d’uscita, nessun punto di svolta. Può venire assimilata al labirinto solo in maniera approssimativa e superficiale, perché volenti e nolenti ci si perde nella sua complessità. Ma la pianta di qualunque labirinto, dalle spirali babilonesi a Franco Maria Ricci, vi rivelerà la volontà di produrre una forma, che è sempre qualcosa di limitato, dotato di confini che si oppongono a tutto il resto. La forza della rete, al contrario, consiste proprio nella sua mancanza di forma e di confini, che la rendono particolarmente adatta allo scopo che persegue, che è quello di sostituirsi al mondo, relegandolo al ruolo di un semplice supporto materiale, di un gigantesco ed obsoleto hardware. E di fronte a questa potenza, con buona pace di Calvino, la «resa» sembra l’unica possibilità. Perché l’esperienza spirituale sottesa ad ogni labirinto comportava la possibilità di un’esperienza di trasformazione totale, di seconda nascita. Dove c’era l’iniziazione oggi c’è il suo contrario, che è l’informazione. E non sta scritto da nessuna parte, dopo tutto, che tutto questo sia destinato a impoverire la vita degli uomini. Anche perché tutto quello che accade nel mondo, in senso collettivo, ha certamente la sua verità, ma non necessariamente coincide con quello che accade nei singoli individui. I singoli individui sono sempre più lenti o più veloci dell’umanità alla quale appartengono. Ed è proprio lì che il labirinto ha trovato il suo nuovo rifugio: basta un artista come Matteo Garrone a dimostrarlo una volta per tutte.