Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 21/6/2015, 21 giugno 2015
RECORD DI PROFUGHI (E RIGORE) LA VIA TEDESCA ALL’ACCOGLIENZA
In una stanzetta del museo Checkpoint Charlie a Berlino è custodita una Volkswagen 1200 blu, il Maggiolino, con il cofano aperto. Nel vano si poteva nascondere una persona e trasportarla oltre il Muro, superando il posto di blocco americano. Le fotografie in mostra sono un po’ logore, ma non dimenticate: in definitiva stiamo parlando di una storia finita solo ventisei anni fa. La Germania ha vissuto a fondo anche il dramma delle fughe di massa, migrazioni convulse, disperate e quindi disordinate. La memoria non è rimasta confinata nelle esposizioni, ma è diventata fonte di ispirazione per l’azione di governo e, soprattutto, sentire comune dell’opinione pubblica. Un recente sondaggio mostra come la maggior parte dei tedeschi sia particolarmente severa con il debito accumulato dalla Grecia. Ma nessuna ricerca mostra segnali di rigetto popolare verso i migranti e verso la politica di accoglienza seguita negli anni dalla cancelliera Angela Merkel, ormai al suo terzo mandato. Nel primo semestre del 2015, secondo le cifre fornite da Eurostat, il Paese ha accolto 73.100 richiedenti asilo su 185.000, il totale europeo. L’Ungheria è seconda con 32.800: questo spiega, ma non giustifica la reazione brutale del governo Orban, con la costruzione di un muro. L’Italia è terza con 15.200. La Germania, dunque, assorbe da sola, il 40% dei profughi. Vero: è il Paese più ricco e più potente d’Europa. Ma il suo Prodotto interno lordo è pari al 20% sul complessivo dell’Unione europea. In sostanza produce uno sforzo di accoglienza doppio rispetto a quanto sarebbe legittimo chiedere. L’Italia, indubbiamente sotto pressione, ospita l’8% di coloro che hanno domandato asilo negli ultimi sei mesi a fronte di un pil pari all’11,5% rispetto all’europeo. I tedeschi sono aperti, ma esigenti con i loro ospiti, non importa se kosovari, afghani o siriani. Il settimanale Die Zeit ha appena pubblicato un supplemento dedicato alle storie degli immigrati cresciuti a Berlino, a Monaco o Stoccarda. L’articolo racconta lo stupore davanti a una visita dello psicologo o di una assistente sociale. Nello stesso tempo descrive quanto sia meticolosa la burocrazia, in modo che le risorse non vadano sprecate. Tutto questo, osserva sul Financial Times l’editorialista Simon Kuper, raramente entra nel dibat-tito europeo, oggi dominato dalle cronache sulle emergenze o sulle quote di ripartizione obbligatoria dei profughi tra i 28 Paesi dell’Unione. «Forse è colpa della lingua, tutti leggono in inglese e ci stiamo perdendo il pensiero tedesco di cui invece abbiamo bisogno», conclude Kuper. Difficile dargli torto.