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 2015  giugno 20 Sabato calendario

«LA FAMIGLIA, LA CUCINA MA ORA TORNO A VIVERE»

Otto mesi senza il profumo dell’erba. Per rispolverare il sapore dimenticato di una domenica sul divano, scoprire di saper cucinare («L’altra sera pasta con rucola, bresaola e gamberi: Kelis e Joyce, le mie bimbe, hanno apprezzato») e, soprattutto, misurare quanto gli manca il calcio. «Tanto. Ho avuto l’idoneità a maggio. Sono tornato a correre però devo ricostruirmi dal punto di vista muscolare e aerobico. Tra sei mesi rifarò tutti gli esami. Non vedo l’ora di tornare». Jonathan Biabiany, 27 anni, non si considera un sopravvissuto. «Non ho mai avuto paura di dover abbandonare lo sport e la mia salute è stata monitorata attentamente». Però c’è stato un momento, nel settembre dell’anno scorso, in cui il ragazzo della Guadalupa abituato ad andare veloce (10’’3 nei 100 metri) si è sentito braccato dallo stopper che non ti aspetti. Il suo cuore.
Il 31 agosto era in campo in Cesena-Parma, fila gialloblù, prima di campionato. Il primo settembre, durante le visite mediche per il trasferimento al Milan, il dottor Tavana gli trova un’aritmia. «La prima diagnosi era estremamente allarmistica — racconta Giovanni Branchini, il procuratore che mise sotto contratto Biabiany quand’era un talento della Primavera dell’Inter e oggi lo tratta come un figlio —. Il professor Carù, che già aveva seguito i casi di Kanu e Fadiga, subito rincuorò Jonathan: tranquillo, tornerai a giocare. Ma non ci siamo fermati lì». La prudenza non è mai troppa (vedi i tre lutti ravvicinati nel calcio belga). Comincia, di fronte a quella miocardite senza sintomi («Nessun segnale: niente di niente») che non trova spiegazioni genetiche (Biabiany non ha origini africane dirette) e che costringe il giocatore allo stop immediato, l’attesa durata fin qui. Riposo assoluto, innanzitutto. «Dopo lo choc iniziale, ho pensato alla salute. Mi sono goduto la famiglia, sono tornato due o tre volte a casa, per la prima volta in vita mia mi sono ritrovato con i weekend liberi. Avrei tanto voluto aiutare il Parma in quella situazione orribile, ma non potevo». Dopo non aver percepito nemmeno uno stipendio dal club in crisi, Biabiany si è svincolato. Il mese scorso l’affetto che lo lega ai nerazzurri lo ha riportato sui prati di Interello, per le prime sgambate; ed è lì, tra il ciuffo di Mancini e la nuova Inter di Thohir che il nuovo Biabiany, sul mercato («Da quando ha ripreso abbiamo avuto molte richieste — dice Branchini —, e nessuno penserà mai di avere a che fare con merce avariata, garantisco io...»), vorrebbe piantare le tende. Sarebbe il terzo sbarco nerazzurro. Jonathan ci conta: «Mi sento un calciatore normale, vorrei una squadra dove fermarmi, senza essere ceduto in prestito. Mancini lo conosco poco però mi piacerebbe rientrare nei suoi piani tattici. A fine luglio sarei pronto per partire per il ritiro». E quando ci sarà da correre dietro un pallone col cuore in gola, a caccia di un gol? «Lo farò, senza problemi e senza retropensieri nella testa». Il procuratore conferma: «Galopperà come un cavallo e si spolmonerà finché avrà fiato».
In otto mesi, Biabiany è stato rivoltato come un calzino. Il via libera decisivo a Boston, dal dottor Aaron Baggish, giovane luminare del settore, che ha ribadito il parere di Carù. «Oggi Jonathan, che è uno dei calciatori più testati al mondo, ha lo stesso profilo di rischio di chiunque altro». Inutile chiedersi cosa sarebbe successo se, invece di andare al Milan, Biabiany avesse preso la strada per la Cina. Santacroce gli ha spesso fatto compagnia, e l’ex compagno Balotelli? «Non l’ho mai sentito. Ma Mario cambia troppi cellulari per stargli dietro». Oggi guarda la vita con altri occhi. E promette, a se stesso e al club che vorrà dargli fiducia: «Sono fresco, integro, motivato. Ho perso un anno di crescita, ma recupero in fretta. Mi piace pensare che questo imprevisto mi allunghi la carriera: giocherò fino a quando le gambe e il cuore me lo permetteranno». Quel cuore che, un giorno, si mise a fare le capriole come Jonathan ragazzino nella banlieue parigina, quando tutto doveva ancora cominciare e molto accadere.