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 2015  giugno 20 Sabato calendario

C’È UNA BOMBA ATOMICA SOTTO LA POLTRONA DI RENZI

L’ultimo a maneggiare il bidone radioattivo fu Silvio Berlusconi. Novembre 2003: il governo del Cavaliere sceglie la via decisionista e per decreto fa della cava di salgemma di Scanzano Jonico, Comune della Basilicata con poco più di settemila anime, il deposito nazionale di tutti i rifiuti e i materiali nucleari esistenti in Italia. Dopo due settimane di disobbedienza civile e incivile guidata amministratori locali, sacerdoti e partiti d’opposizione, finisce con la marcia indietro del governo e i scanzanesi che festeggiano per le strade: «Chi non salta Berlusconi è». Adesso tocca a Matteo Renzi, che di fare quella fine non ha alcuna voglia, anche perché lo stato di salute del governo è quello che è, e lo shock nucleare potrebbe essere fatale. Sulla carta, stavolta è tutto diverso. Primo: l’imperativo è evitare imposizioni. Il percorso, codificato nel decreto 31 del 2010, sarà lungo, trasparente e quanto più possibile condiviso. Se il governo rispetta i tempi, come il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti ha promesso nei giorni scorsi, la svolta si avrà a luglio, con la pubblicazione della “Carta delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il Deposito Nazionale” da parte della Sogin, la società di Stato responsabile del decommissioning degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi, incaricata della costruzione del deposito unico nazionale. La lista, con decine di località, di fatto è già pronta, ma al momento è segreta e attende il via libera del governo. È stata preparata adottando il criterio dell’esclusione: dalla cartina d’Italia, seguendo le linee guida preparate dall’Istituto superiore per la protezione ambientale, sono state tolte le zone vicine ai centri abitati, le aree vulcaniche e sismiche, le fasce fluviali, le zone ad altitudine maggiore di 700 metri sul livello del mare, quelle distanti meno di 5 chilometri dalla linea di costa e così via. Il che ha permesso di escludere tanta roba ed intere regioni, ma ha consentito comunque di stilare un elenco corposo. La seconda grande differenza rispetto a Scanzano è che il deposito non sarà geologico, ma un sito di superficie costruito sull’esempio di quello francese de l’Aube, che è stato aperto nel 1992 nel cuore del dipartimento dello Champagne-Ardenne e non ha mai dato problemi («Ma il nostro, arrivando dopo, sarà ancora più sicuro», assicura Fabio Chiaravalli, direttore Deposito nazionale e parco tecnologico di Sogin). Questo significa che serviranno investimenti importanti e nuova occupazione. Per la costruzione del sito italiano è previsto un investimento di circa 1,5 miliardi di euro e saranno necessari 1.500 posti di lavoro per quattro anni. Dopo l’entrata a regime, prevista per il 2024, l’impianto darà stipendio a 700 persone. Complessivamente, la struttura occuperà un’area di 150 ettari, di cui circa 20 destinati al deposito definitivo. La restante superficie ospiterà tutte le strutture di servizio e il Parco tecnologico. L’Italia sarà infatti il primo Paese ad ospitare il proprio deposito nazionale dentro un grande campus di ricerca e sviluppo. Il deposito accoglierà definitivamente circa 75 mila metri cubi di rifiuti radioattivi di bassa e media attività, il 60% dei quali prodotti dallo smantellamento degli impianti nucleari e il resto generato dalle attività quotidiane di medicina nucleare, industriali e di ricerca. Servirà anche a dare rifugio temporaneo a circa 15 mila metri cubi di rifiuti ad alta attività, messi lì («in piena sicurezza», assicurano alla Sogin) in attesa che si trovi per loro un deposito geologico definitivo. “Francese” anche la scelta di compensare economicamente la comunità che ospiterà il deposito. Andra, l’Agenzia transalpina per la gestione dei rifiuti radioattivi, versò all’inizio l’equivalente di dieci milioni di euro per aiutare il territorio ad accogliere l’impianto e dotarsi delle strutture necessarie; da allora, mette ogni anno due milioni nelle casse delle comunità locali, che possono usarli come credono (per fare spesa pubblica o abbattere le tasse locali) e la metà di questi soldi va al comune di Épothémont, che ospita 181 abitanti ed è il più vicino al deposito. Nel caso italiano, secondo le indiscrezioni, lo stanziamento dovrebbe essere ancora maggiore. Basteranno queste differenze rispetto a dodici anni fa per cambiare anche il finale della storia? Governo e Sogin sperano di sì. Il sogno è che qualche Comune il cui nome appare in quella lista si faccia avanti spontaneamente, attratto dai vantaggi economici e dai posti di lavoro che il deposito nazionale porterà con sé e rassicurato dal successo dell’esempio francese e dagli ancora più stringenti standard italiani, che prevedono ad esempio l’utilizzo di una barriera in più, un modulo in calcestruzzo che a sua volta conterrà i fusti di metallo e sarà inglobato in celle di cemento armato garantite per 350 anni. Nei quattro mesi successivi alla pubblicazione della lista ci sarà un dibattito pubblico dove saranno invitati a partecipare tutti i soggetti interessati, incluse le associazioni ambientaliste, e nel quale questi e tutti gli altri aspetti saranno spiegati nel dettaglio alle comunità locali. Si farà leva sull’esempio de l’Aube, dove il deposito da un milione di metri cubi convive con i vigneti dello Champagne e coltivazioni doc e dove i controlli - anche indipendenti - sulla terra, l’acqua e l’aria sono continui. Anche lì, all’inizio, l’80% della popolazione locale era contrario all’impianto e adesso la percentuale si è ribaltata, tanto che il territorio si candida a ospitare un ulteriore deposito nucleare. L’agenda italiana prevede che, cinque mesi dopo la consultazione pubblica, inizi la fase delle “manifestazioni d’interesse” da parte delle amministrazioni locali, e sarà lì che si deciderà la partita: ci fossero almeno due autocandidature, la sfida di realizzare il deposito nucleare nazionale senza usare il pugno di ferro potrebbe dirsi vinta. Non sarà facile. Il paragone con la Francia regge fino a un certo punto, se non altro perché lì convivono da decenni con il nucleare, che Oltralpe fornisce elettricità al 75% delle lampadine. In Sardegna le mobilitazioni sono già iniziate, in nome dell’autonomismo politico e del rifiuto al nucleare, e appena la lista diventerà di pubblico dominio sarà il big bang ovunque. Preoccupazioni fondate, calcoli politici e isterie si coalizzeranno contro la costruzione del sito, dando vita a fenomeni che il vocabolario anglosassone ribattezza come Nimby (Not in my back yard, non nel mio giardino), Nimto (Not in my turn of office, non durante il mio incarico), Nimet (Not in my election time, non durante la mia campagna elettorale) e persino Banano (Build absolutely nothing anywhere near anything, non costruire nulla da nessuna parte che sia vicina a qualcos’altro). Per evitare che la soluzione finale sia un’imposizione dall’alto, governo e Sogin dovranno sudare le sette camicie per far capire quali sono i vantaggi economici e gli standard di sicurezza alle comunità locali dei territori i cui nomi appaiono in quell’elenco. Sarà anche un ottimo modo per testare la capacità di leadership di un premier che sembra avere già la testa alle elezioni.
IL NUCLEARE IN ITALIA
In Italia la produzione di energia elettrica da fonte nucleare risale ai primi anni sessanta; nel ’66 l’Italia era terzo produttore al mondo dopo Usa e Inghilterra.
LE QUATTRO CENTRALI
La prima centrale italiana venne realizzata a Latina, un impianto ultimato il 12 maggio 1963 che rappresentava l’esemplare più potente a livello europeo. Otto mesi più tardi fu approntata quella di Sessa Aurunca, alla quale seguì meno di un anno dopo l’installazione di Trino, che al momento della sua entrata in funzione costituiva la centrale elettronucleare più potente nel mondo. Il 1º gennaio 1970 iniziò la costruzione della quarta centrale, quella di Caorso.
I REFERENDUM
Le quattro centrali sono state chiuse (le ultime due nel ’90) per raggiunti limiti d’età, o a seguito dei referendum del 1987. Il dibattito sull’eventuale reintroduzione dell’energia nucleare, che si era aperto fra il 2005 ed il 2008, si è chiuso con i referendum abrogativi del 2011, in cui sono state abrogate le normative per l’ambito nucleare da elettroproduzione.