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 2015  giugno 21 Domenica calendario

SULLA SEDIA DOVE L’AVANA ASPETTAVA LA RIVOLUZIONE

Sono tutti esuli a L’Avana, anche quelli che ci sono nati e per forza di cose non se ne sono andati mai. Abitano un sogno infranto, ma sanno che svegliarsi significherebbe farlo svanire e loro con lui. E allora avanti con la malinconia sul Malecón e con la nostalgia per quel che doveva venire dopo. Siamo tutti un po’ naufraghi dei nostri desideri, soprattutto quelli che li hanno realizzati: non tanto gli è cambiata la vita, quanto sono cambiati loro. Finché sognavano, si sforzavano di essere migliori. Poi, sono stati soltanto se stessi. Per questo le rivoluzioni falliscono: quando il fuoco cessa restano uomini di cenere. Passate a pulire i resti dei sigari di Fidel, per favore. Grazie.
Cuba, un’idea astratta del miglior mondo possibile; in concreto, rimane sulla tela il realismo dei Castro mentre Che Guevara va a cercar gloria altrove. La prima e, parrebbe, ultima volta che ci sono stato era con uno storico viaggio del papa, Giovanni Paolo II. Sembrava dovesse essere l’evento del secolo che stava finendo, la riappacificazione in extremis tra le due grandi chiese, cattolica e comunista, l’abbraccio tra i due grandi vecchi, vittime dell’auto-assolutismo. Chiedevi informazioni ai colleghi che c’erano stati spesso e tutto quel che ne ricavavi era una specie di galateo e prezzario nei rapporti con le jineteras, le giovani prostitute locali.
«Col papa in giro bloccheranno gli accessi agli hotel, dopo il paladar dovrai portarle in una casa particular».
Non approfondivo. L’idea di sesso in cambio di una cena mi rattristava più che si fosse parlato di soldi e basta. Piuttosto andavo a messa, almeno conoscevo chiese riaperte per l’occasione. Esattamente quel che avrei voluto verificare anni dopo, quando richiesi il visto: se si fosse trattato solo di uno show.
Un inviato speciale uscito dal romanzo di Evelyn Waugh mi guardava perplesso ogni sera al bar dell’albergo, bevendo cocktail e facendo la parodia di sé. Diceva: «Ti affanni dietro una finzione. A nessuno importa davvero, ma devono comportarsi come se». Due giorni e gli avrei dato ragione: venne fuori una stagista che sosteneva di avere il vestito macchiato da un fluido del presidente americano e quasi tutti i giornalisti lasciarono L’Avana per Washington senza aspettare la «storica messa a Plaza de la Revolucion». Alcuni europei restarono, ma molti di loro in camera d’albergo a scrivere di Monica e Bill, invece che di Fidel e Karol. La coppia d’assi era l’altra.
La sera della vigilia l’inviato speciale decise di prendersi, finalmente, il suo «ricordo dall’Avana». Siccome non fumava, scelse una ragazza. Avviò la trattativa. Alla sua conclusione venne al bancone e mi chiese le chiavi della Tico che avevo noleggiato. Spiegò: «Mi porta a una ventina di chilometri da qui». Pensai non l’avrei rivisto, e neppure la Tico. La musica continuò: più i popoli sono malinconici più suonano, ma le note sono più sincere delle parole e senti sempre la verità. I vecchietti del Buena Vista Social Club sarebbero morti molto prima se non li avessero portati a far concerti a New York in nome della terra madre.
Avevo visto una foto del papa e del líder máximo che camminavano a braccetto in un corridoio lungo e scuro, una luce al fondo. Sembravano sorreggersi a vicenda, nello sforzo di dover regnare fino alla fine dei propri giorni. Non erano ancora pensabili le dimissioni di un pontefice, né l’accantonamento per malattia del patriarca. Papa Francesco e Raul Castro, quando si sono incontrati a Roma, sembravano i prodotti di un’altra storia, più distratta e clemente.
L’inviato speciale riapparve dopo un paio d’ore, visibilmente scosso. Erano stati più di venti chilometri, disse. La ragazza l’aveva condotto a un casolare in quella che, nell’oscurità, gli era parsa aperta campagna. Erano entrati, aveva svegliato una “tia”. L’anziana donna a sua volta aveva raccolto dal letto un bambino piccolo, che aveva continuato a dormire nelle sue braccia mentre usciva in cortile, prendeva una sedia e restava lì, con la creatura in grembo, sorridente. Aveva fatto cenno di occupare serenamente la casa, era tutta loro. «Prego!», a gesti.
Ne avevano preso possesso. La situazione, ammetteva, gli era parsa bizzarra, ma solo per qualche minuto. Poi non ci aveva pensato più. Io invece pensavo e talvolta ancora penso a quella sedia, alla simbologia di quelle azioni (lo straniero arriva, espropria, usa) così esplicita che non occorre aggiungere altro. Ho immaginato la parte bassa del continente americano punteggiata da sedie come quella. Si leva una nenia consolatoria. Aspettano che il bambino si svegli. Quella sedia è il trono dei Castro.
Non l’ho mai raccontata prima, questa storia. Sulla lista nera penso di esserci finito per come ho descritto quell’immagine di Wojtyla e Fidel, quel loro modo di tenersi l’uno all’altro, avanzando nel buio, verso un’altra sponda, senza nessuno a seguire, nessuno a credere.
Gabriele Romagnoli, la Repubblica 21/6/2015