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 2015  giugno 21 Domenica calendario

PEJRONE: “È UN VERO BOOM. MA ATTENZIONE A ECCESSI E MODE”

«Chi non vede un futuro non pianta un giardino» dice Paolo Pejrone. Architetto di giardini per gli Agnelli, i Rotschild, l’Aga Khan e i Borghese – solo per fare alcuni nomi – di futuro deve vederne tanto, se si conta tutto il verde che ha piantato. Allievo di Russell Page, ha contribuito anche lui a diffondere la nuova mania per i giardini, pubblicando libri come La pazienza del giardiniere (Einaudi) e I miei giardini (Mondadori Electa).
Pejrone, come spiega questo interesse sempre più diffuso?
«Il giardino è un rifugio. Un luogo dove rintanarci e scappare dalla folla. Questo nuovo interesse va di pari passo con il ritorno dell’introspezione: è una reazione al bombardamento tecnologico. In Italia, negli ultimi due anni, c’è stato un vero e proprio boom. Si moltiplicano pubblicazioni e mostre dedicate al tema. Il verde è uno dei risultati migliori dell’Expo di Milano. Ma il fenomeno è europeo: Francia e Inghilterra ci hanno preceduto. L’ultima edizione del Chelsea Flower Show, a Londra, ha dovuto ridurre lo spazio espositivo per fare posto ai visitatori che sono sempre di più. Paradossalmente questa nuova mania mette in pericolo i giardini».
Perché?
«L’eccesso di visitatori non giova. In Gran Bretagna, al Castello di Sussinghurst, il famoso giardino di Vita Sackville-West, la compagna di Virginia Woolf, è ipervisitato e ha bisogno sempre di più cure. Lo stesso accade a quello di Isola Bella sul Lago Maggiore: il lunedì e il martedì mattina viene riordinato dopo il passaggio dei turisti nel fine settimana. I giardini vengono uccisi dal loro stesso successo».
Non è paradossale che in tempi in cui si riduce la soglia di attenzione, ci si abitua a comunicazioni e connessioni veloci, si riscopra il giardino che, come si sa, è il frutto di pazienza e di attesa?
«È proprio una reazione a tutto questo, un contrappasso. Si tratta di cedere le armi al tempo. Si scopre il compiacimento della lentezza. In più il giardino offre la bellezza della casualità, del non pulito. Non tutto appare perfetto e in ordine. E ci sono tanti contrasti, paradossi: l’infimo è legato al sublime. Dal letame vengono fuori le rose e le peonie. I tempi, poi, non sono così lenti come si crede. Oltre a quella dei giardini, si sta diffondendo anche la moda degli orti, che possono essere coltivati in casa e permettono di applicare i principi dell’ecologia con risultati veloci. I comuni della cintura di Milano hanno regolamentato i nuovi orti cittadini».
Se piantare un giardino significa vedere il futuro, è anche un atto di altruismo?
«Assolutamente no. Non c’è nulla di altruistico. Il rapporto con la terra e con il tempo è individualistico. Si pianta per se stessi. Per i propri occhi, per un conforto personale».
Com’è cambiato il gusto per il verde, ora che è diventato così popolare?
«Se prima era appannaggio di un’élite, adesso si fa giardinaggio in qualsiasi posto. È tutto più libero. E i giardini estesi, quelli di una certa importanza, sono diventati più sobri e sostenibili. Il lusso di grandi alberi e prati a cui bisognava lavorare tutti i giorni della settimana non è più pensabile. In questo pesa molto la diffusione dell’ecologia. Non si abusa più dell’acqua. La lavanda va di moda perché non ha bisogno di essere innaffiata. Si realizzano giardini a secco. Uno dei nuovi pionieri della materia, Olivier Filippi, giardiniere di Montpellier, ha inventato il giardino senz’acqua».
Non c’è il rischio di una deriva? Di una banalizzazione del verde, come è accaduto per la cucina tra reality show e ricettari infiniti?
«Gli scenari sono differenti: il tempo e la pazienza fanno da moderatori a tutti questi entusiasmi. Una frittata si fa presto a farla. Piantare un albero no. Il giardinaggio è di moda, ma non subisce gli strappi della moda. Ha dei buoni anticorpi. In Inghilterra i grandi giardinieri stanno diventando pop come i cuochi, ma non prevedo l’effetto Masterchef».
Cosa non sappiamo ancora del mondo vegetale?
«I più ignorano la reciproca simpatia delle piante. Certe amano vivere con noi, muoiono senza la nostra compagnia. È un rapporto di convivenza: si vive e si cresce insieme. A me piace moltissimo dar loro da mangiare: è un momento di grande gioia interiore».
Dario Pappalardo, la Repubblica 21/6/2015