Maurizio Crosetti, la Repubblica 20/6/2015, 20 giugno 2015
UN CALCIO ALLA GUERRA IL CUORE DI TREZEGUET TRA I BAMBINI SOLDATO “LO SPORT LI SALVERÀ”
[David Trezeguet] –
TORINO
Forse bisognava spingersi nel cuore dell’Africa per comprendere che «il calcio è come un grande tamburo, e se lo usi per una giusta causa si sente in tutto il mondo». David Trezeguet non gioca più (ma forse potrebbe, è ancora tonico e asciutto come un chiodo). È tornato alla Juve, dove rappresenta le vecchie glorie, le hanno chiamate Juventus Legends: organizzano partite contro altre stelle del passato, incassano denari per beneficenza, finanziano progetti sociali insieme all’Unesco. L’ultimo, aiutare gli ex bambini soldato a diventare persone.
«Subito dopo la finale di Berlino, con un salto incredibile non solo dal punto di vista geografico siamo andati in Repubblica Centrafricana e nel Mali. Abbiamo visitato centri di recupero per questi ragazzi, scuole, laboratori dove viene insegnato loro un mestiere: intrecciare giunchi, modellare il legno, fabbricare gioielli, pitturare, cucire. Ci sono anche le femmine, perché delle bambine soldato non si parla mai però esistono, ed è sconvolgente solo pensarlo».
Sette giorni a Bangui e Bamako, nel cuore di un nulla che è moltissimo e ha bisogno di tutto. «Quei bambini hanno lo sguardo grigio. Provi a farli parlare e non riescono, dicono a malapena che li picchiavano, che stavano con gente cattiva. Hanno storie dolorosissime, sono quasi tutti orfani, oppure strappati alle famiglie e mandati a combattere per una ciotola di cibo. Nella Repubblica Centrafricana il 70 per cento della popolazione ha meno di 25 anni e l’aspettativa di vita è di 40. Ho incontrato bambini che hanno visto solo morte, e ho capito che lo sport può salvarli».
Da cinque anni la Juventus è attiva nel sociale, ha aiutato l’ospedale Sant’Anna di Torino, ha ideato nelle scuole un progetto contro il razzismo e adesso ha deciso di lavorare in Africa con l’Unesco. «Siamo stati a Bangui e Bamako insieme a un sottosegretario delle Nazioni Unite, il francese Eric Falt», spiega Trezeguet. «Noi calciatori spesso viviamo fuori dalla realtà, il tempo è poco per qualunque cosa, si pensa solo a giocare e se ti metti altro nella testa magari ti dicono che ti deconcentri. Io invece credo che tra noi ci sia ancora scarsa sensibilità verso chi ha bisogno. In Africa, tra il vivere e il morire può essere decisiva anche una piccola bottiglia d’acqua».
Nei filmati si vedono decine di bambini con la maglia della Juve, che cantano in coro “Davìd/Tre—ze—guet”. «Non me l’aspettavo, ne parlerò a lungo con i miei figli, voglio che un po’ capiscano. La guerra non solo uccide ma devasta tutto quello che la circonda, ci sono bombe che esplodono dentro le persone, le soluzioni diventano un dovere collettivo. Di questo viaggio mi restano tante fotografie nella mente, i villaggi senza nulla, solo una rotonda e terra battuta, nessun servizio, niente medici, ospedali, energia elettrica. Oppure il coprifuoco vivamente consigliato a Bangui, nell’area di Boy Rabe, uno dei centri della resistenza armata, un luogo dove non va nessuno. Ma là c’è una forza morale enorme, la gente vuole uscire dall’incubo, i ragazzi specialmente. Ti prendono le mani, ti dicono sempre grazie. Una mattina dovevamo raggiungere l’aeroporto, dovete immaginare una pista in mezzo al nulla con aerei vecchi, e alle sette già c’erano bambini che giocavano a pallone. Perché è questa l’energia mondiale del nostro sport, qualcosa di grande e immediato, una lingua istintiva che capiscono tutti. Perciò bisogna usarla per aiutare gli altri, per dare gioia e speranza a chi ne ha bisogno».
Anche perché non è vero che i calciatori siano tutti degli alieni. Semmai lo diventano. «Tanti di noi hanno conosciuto storie difficili o un’infanzia complicata, penso a Tevez, a Vidal. Il privilegio e il successo, quando ci sono — e ci sono per pochissimi — rappresentano la fine di un percorso tortuoso, spesso si lasciano famiglie lontane con un salto nel vuoto, senza alcuna certezza. Anche noi abbiamo conosciuto la nostalgia di casa e sofferto la distanza dei nostri cari. Voglio dire che un calciatore può capire bene questi bambini, se lo vuole e si sforza un po’. Mentre ero in Africa, mi dicevo: un solo giorno di Cristiano Ronaldo o Messi tra questi ragazzini sarebbe una specie di rivoluzione».
Ma non si rischia, David, che tutto sia sempre troppo rapido e che nella sostanza cambi poco? «Forse, ma bisogna credere all’importanza enorme delle piccole cose. Stiamo parlando di gocce nel mare, però senza quelle gocce sarebbe tutto più arido».
Maurizio Crosetti, la Repubblica 20/6/2015