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 2015  giugno 20 Sabato calendario

FCA-GM, UN CASO POLITICO

Lo confesso: come studioso di comportamenti organizzativi delle leadership provo ammirazione verso Sergio Marchionne, lo considero uno dei personaggi più affascinanti nella fauna dei supermanager. Non lo conosco di persona, però lo studio da anni, ci ho scritto un libro, gli dedico molte pagine anche nell’ultimo Fiat, una storia d’amore (finita), svariati sono gli articoli che ho scritto sulle sue gesta.
Ho investito in Fiat Chrysler, addirittura il giorno (29 marzo 2009) dell’annuncio di Obama, certo in modo risibile, stanti le mie disponibilità finanziarie, ma non mi sono pentito. Ho sempre tenuto separati i miei comportamenti da investitore dalle mie idee di analista-manager. I primi non mi appartengono, sono legati al mercato; mio compito è «cavalcarlo», non condividerlo (conta solo il profitto). Le seconde sono orientate al lungo periodo; da analista voglio capire come finirà il caso Fca, anche per i suoi risvolti sentimentali. Per anni ho giudicato Marchionne secondo le categorie del management classico, con giudizi rispettosi ma critici, prigioniero della mia esperienza di manager «datato» (il capitalismo d’antan), mentre come investitore ero molto soddisfatto delle performance. Solo nel 2012, all’annuncio del mirabolante progetto «Fabbrica Italia», capii: l’uomo era una versione originale del leader 2.0, che, oltre che nel business, troviamo in politica, nell’arte contemporanea, persino nei celeberrimi chef. I suoi piani strategici, uno all’anno (sic!), che altro erano se non, estremizzando, momenti di comunicazione? Nel mio libro racconto l’ipnosi, collettiva e singola, di parte dei nostri politici, sindacalisti, intellettuali, a fronte alle sue gesta. Soprattutto grazie a lui l’Italia è entrata, guidata da un baldanzoso Renzi, nel ceo-capitalism.
Due mesi fa, da grande «seduttore» quale è, aveva parlato a Goiana (Pernambuco), si era fatto profeta per costringere i suoi competitor a cambiare modello di business, procedere cioè a un consolidamento fra di loro. Mi chiesi allora: possibile che un raffinato negoziatore come Marchionne faccia l’errore di «offrirsi»? E ancora, come altri analisti: sarà mica che il suo Piano 2014-18 proceda arrancando troppo? Teniamo poi presente, e lui lo sa, che: è seduto su un «picco» del mercato americano (quanto durerà? Chissà, questo sarebbe comunque il momento di tacere e mettere fieno in cascina); incombe l’evoluzione dell’auto come contenitore di «servizi di bordo», e investimenti a seguire. Pensavo che a Goiana avesse tentato la mossa del cavallo, invece no, ora è chiaro, ha deciso di muovere la regina. Malgrado il no secco del ceo di General Motors, e del relativo board, va avanti determinato, ma sta cambiando strategia, come sottolinea il Wall Street Journal: fa forti pressioni, seppur sotto forma di un’opa aggressiva «verbale», per convincere tutti gli azionisti GM a sostenerlo.
Mi rifiuto di credere a una fusione alla pari GM-Fca, la prima ha una capitalizzazione di 56 miliardi di dollari contro i 20 di Fca, oltre al fatto che: sul mercato americano i margini di Fca sono del 3,7%, la metà rispetto a GM; i bond Fca, essendo giudicati (tuttora) junk (spazzatura) comportano interessi più alti, quindi sono penalizzanti. In conclusione, GM capitalizza quasi il triplo di Fca e guadagna il doppio. Impraticabile la fusione fra pari, resta la «vendita», però alle condizioni del compratore. Come investitore di Fca, condivido la mossa di Marchionne, questo è uno snodo drammatico e strategico per Fca. Io, al suo posto, cosa farei? Partirei da due assunzioni: il Piano 2014 sta arrancando troppo ed è inaccettabile; l’unico consolidamento possibile è con un «cinese» (cessione) o con GM (cessione mascherata da fusione). In termini di business e di management non ne esistono altre. Perché allora non cambiare paradigma, entrare in un altro mondo, quello sensibile a «gli farò una proposta che non potrà rifiutare»? A chi farla? Al vero «Azionista» di Fca, quello in sonno: Barack Obama. Diciamolo brutalmente: in termini politici lui, e con lui i democrat, con tutto ciò che hanno fatto in questi anni per Chrysler e Fiat, non si possono permettere di avere una Fca neppure in odore di crisi, figuriamoci costretta a vendersi a un «cinese», i repubblicani li sbranerebbero. Il ceo-capitalism è anche questo, un groviglio inestricabile di pubblico e di privato, che galleggia fra politica, business, management, lobby e, ancora, bonus, stock option, lotta parlamentare, voti.
Un passo indietro, torniamo a quel febbraio 2009. Allora Fiat era tecnicamente fallita, il titolo valeva 3,54 euro (con i bond declassati a junk), contro i 5,74 euro di quando Marchionne era arrivato, cinque anni prima, il 31 maggio 2004. Un disastro. Dall’altra parte dell’Atlantico Obama si trovava di fronte a un fallimento potenziale, ma molto probabile (GM) e a uno già in corso (Chrysler); da liberista d’accatto (come sono in genere i democrat americani) decide una doppia «nazionalizzazione», per GM «interna al sistema», per Chrysler «esterna». Offre Chrysler a tutti i competitor mondiali, partendo dall’alto, in ordine di status: a ogni rifiuto cresce la «dote», l’ultima è la Fiat di Marchionne, che accetta. In quel momento nasce il nuovo Marchionne, un genio del negoziato; Obama (e i suoi super-esperti) si convincono che Fiat abbia «comprato» Chrysler, mentre in realtà sono loro che «salvano» con Chrysler anche Fiat Auto. A paradigma mutato, oggi cosa farei io? Mi rivolgerei all’Azionista Obama, gli illustrerei una successione di scenari preoccupanti che portano alla conclusione che c’è un’unica soluzione praticabile ed è pure urgente. Il tutto nell’interesse: dell’immagine dei democrat; dei contribuenti americani che appena sei anni fa hanno salvato GM, Chrysler e Fiat; dei sindacati americani (dopo sei anni di rinunce di parti rilevanti dei loro diritti, l’accordo capestro di allora sta scadendo e verrà rinegoziato su basi centrate sullo sviluppo; in proposito ricordo la frase di Marchionne che certificò l’accordo: «La cultura dei diritti va sostituita con la cultura della povertà»).
Infine, non dimentichiamo che siamo a 16 mesi dalle presidenziali e i democrat non possono permettersi sbavature su un elettorato sensibile come quello che gravita intorno al mondo dell’auto e dell’automotive, storicamente a loro legato. Quale potrebbe essere la soluzione? Una sola, proprio quella che vuole Marchionne: la fusione GM-Fca. Come realizzarla? Alla francese, con una moral suasion statalista di Obama su GM. Obama non la può rifiutare, così GM, se lui la fa, la deve subire in nome dei supremi interessi dell’America. Politicamente è la soluzione perfetta, essa resetterà il passato, le opacità del 2009 saranno cancellate, il futuro dell’auto americana garantito, almeno nel breve. Certo, nessuno potrà mai affermare che Obama l’abbia fatta e neppure dire più che gli Usa siano un Paese liberale, ma il risultato è più importante di tutto: Fca deve essere messa in sicurezza. Circa le modalità tecniche, le banche d’affari sapranno come ottimizzarla, gli esperti di comunicazione come «venderla» al mercato e ai cittadini. E noi investitori? Fingers crossed.
Ps. La locuzione moral suasion da parte della politica verso il mondo del business la trovo la forma più alta del politicamente corretto e del ceo-capitalism. Il suo suono mi affascina.
Riccardo Ruggeri, MilanoFinanza 20/6/2015