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 2015  giugno 20 Sabato calendario

SANTA JANET DEI MERCATI

Il ritorno alla normalità dei tassi sul dollaro dipende esclusivamente dai dati relativi all’andamento dell’economia americana: non saranno né la volatilità dei mercati, né le conseguenze indesiderate sulle altre economie, comprese quelle emergenti, a guidare le decisioni della Fed.
Siamo ancora alle prove generali della manovra di uscita dal dollaro a costo zero, che non sembra affatto imminente. Il dollaro è americano e verrà gestito dalla Fed esclusivamente sulla base delle esigenze della economia statunitense e dei suoi andamenti, al fine di perseguire gli obiettivi del duplice mandato, massima occupazione e stabilità dei prezzi. Valuta globale, gestita però secondo gli interessi nazionali.
La governatrice della Fed Janet Yellen ha ritenuto necessario chiarire, nella conferenza stampa seguita alla riunione del Fomc dello scorso 17 giugno, che le decisioni della Fed, come anche quelle del Fmi, devono essere guidate esclusivamente dalla oggettività dei dati economici: è questa la migliore garanzia per i mercati, per riaffermare la totale autonomia da considerazioni di altra natura, anche a costo di pagare il prezzo della volatilità dei mercati. Di certo, l’irrazionalità distruttiva, e soprattutto le condizioni di ingovernabilità monetaria che hanno caratterizzato l’euro nel 2012, tanto da indurre la Bce a predisporre il meccanismo dell’acquisto di titoli di Stato senza limiti prefissati (Omt), sembra una ipotesi del tutto irreale per la Fed ed il dollaro. Infatti, rispetto alla preoccupazione manifestata dalla direttrice del Fmi Christine Lagarde, che un aumento deciso già quest’anno possa determinare volatilità ed indesiderabili spill-over, Janet Yellen ha detto di non poter promettere che non ci sarà volatilità quando si deciderà di aumentare i tassi, ma che adopererà al massimo per comunicare chiaramente quale sarà la politica adottata dalla Fed e le sue aspettative, per evitare ogni tipo di inutile incomprensione che possa creare volatilità sui mercati e potenziali spill-over anche nei confronti dei mercati emergenti.
Per fortuna, le condizioni congiunturali dell’economia americana allontanano il momento della prova. Con la fuga in corso dei depositi bancari dalla Grecia, e l’incombente timore di un default di Atene per via del trascinarsi senza esito delle trattative sugli aiuti, una manovra restrittiva sui tassi americani avrebbe comunque provocato una ondata di capitali verso il dollaro alla ricerca di migliori rendimenti, che può innescare una pericolosa fuga dal rischio-euro.
La Fed continua quindi a stare alla finestra, ancora ben chiusa: i dati congiunturali suggeriscono di mantenere la politica monetaria accomodante. Indicare una data, anche prossima, per aumentare i tassi, parlando appunto di settembre, dicembre o marzo del 2016, non serve solo a dimostrare al mercato che la decisione sarà presa sulla base dei dati oggettivi, quanto ad evitare comportamenti ingiustificatamente ottimisti in prossimità di una stretta. Ma, da quanto emerge dalle previsioni relative al 2016, la politica monetaria potrebbe restare accomodante ancora assai a lungo. Dai dati pubblicati contestualmente alla riunione della Fomc emerge in primo luogo un significativo peggioramento della crescita del pil statunitense nel 2015 rispetto alle stime di marzo: da un +2,3-2,7% del pil si passa a un +1,8-2%. Il brusco rallentamento nel primo trimestre dell’anno in corso non viene quindi recuperato, con una flessione compresa tra il -0,5% ed il -0,7%. La previsione sul tasso di disoccupazione peggiora a sua volta, anche se di poco, passando dal 5-5,2% di marzo al 5,2-5,3%. Non variano invece i dati relativi all’inflazione: +1,3-1,4% per la componente «core», e +0,6-0,8% per quella complessiva, su cui influiscono i prezzi all’importazione ed i prodotti energetici: cifre distanti anni luce dal +2%. Sulla base di questi dati, la Fed ha deciso di mantenere inalterato il tasso dei federal fund, nel range compreso tra lo 0% e lo 0,25%, di continuare a reinvestire i rimborsi delle Mbs delle Agenzie federali immobiliari, e di rinnovare alle scadenze i titoli federali partecipando alle aste per le nuove emissioni. Con il Qe3 è stata immessa liquidità direttamente nell’economia reale, senza dover passare necessariamente per la creazione di nuovo credito bancario, e sono state assorbiti titoli derivanti dalla cartolarizzazione dei mutui immobiliari. L’acquisto dei titoli di Stato ha inoltre evitato che il sistema bancario americano dovesse farsi carico del finanziamento del deficit federale, lasciandolo libero di erogare credito all’economia reale. È stata seguita una strategia diametralmente opposta a quella della Bce, che ha cercato di immettere liquidità solo attraverso il settore bancario, prima con le Ltro, poi con le T-Ltro e infine con gli acquisti di Cb e Abs decisi a settembre 2014.
La Fed continuerà a essere accomodante ancora a lungo: se per un verso riafferma che «i tassi verranno alzati solo quando avrà constatato ulteriori miglioramenti nel tasso di disoccupazione e avrà la ragionevole fiducia che il tasso di inflazione si avvierà al 2% nel medio periodo», il tasso di disoccupazione è previsto in calo tra il 4,9 e il 5,1% sia nel 2016 che nel 2017, mentre l’inflazione complessiva è prevista tra il +1,6-1,9% nel 2016. Anche i dati dell’inflazione prevista nel 2016 militano per un rinvio ulteriore dell’aumento dei tassi, considerando che solo nel 2017 è previsto un range tra il +1,9-2,%, stavolta con una leggerissima accelerazione di un decimo di punto rispetto a marzo (1,9-2%). Il lento passo dell’economia americana giova all’Europa: in questo momento, un decoupling dei tassi sarebbe fatale per l’euro. Lo spill-over sull’euro di una decisione sull’aumento dei tassi di interesse sul dollaro è comunque un rischio razionale, inevitabile. Lo spill-over sull’euro di un mancato accordo sugli aiuti alla Grecia è invece un rischio irrazionale, evitabile. Ma la irrazionalità, più della razionalità, è nella natura umana.
Guido Salerno Aletta, MilanoFinanza 20/6/2015