Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  giugno 21 Domenica calendario

MILANO

«Mi sono reso conto subito che non sarebbe stato facile andare avanti con quel fastidioso catarro… Ed ero solo all’inizio. Ho pensato alla sfilza di brani che mi aspettava, uno più difficile dell’altro. Ce l’avrei fatta?». Il giorno dopo il recital alla Scala, Juan Diego Flórez ripensa con qualche brivido e molta emozione a quella strana serata, cominciata in modo poco brillante e conclusa in un trionfo.
Cinquanta minuti d’applausi, dodici chiamate alla ribalta, sette bis e una standing ovation. «Qualcosa di straordinario è successo» assicura il tenore peruviano che, dopo qualche défaillances e un imprevisto colpo di tosse, si era rivolto al pubblico: «È solo un po’ di catarro. Abbiate pazienza».
Ammissione sincera accolta con un applauso. «Il pubblico è con me, mi sono detto. Nervi saldi e avanti! Dovevo dimenticarmi un po’ della voce e concentrarmi sull’interpretazione. Ho cantato l’aria dal Turco in Italia di Rossini come raccontassi una favola. Ed è andata benissimo». Ma non era il caso di rilassarsi. «Quella successiva, “T’amo qual s’ama un angelo” dalla Lucrezia Borgia di Donizetti, è insidiosissima. Ma in programma…». E lui l’ha cantata. Con tale passione da far venir giù il teatro. «A quel punto il peggio era passato. La seconda parte, tutta francese, Duparc, Massenet, Gounod, era più facile». Nel frattempo la voce era tornata, rinsaldata, inscalfibile a ogni capriccio delle corde vocali.
L’ultima aria, «L’amour! L’amour!» da Romeo et Juliette scatena la platea. A furor di popolo Flórez è richiamato in scena tante di quelle volte che il bis è inevitabile. Non uno ma sette. Scanditi da applausi ed entusiasmi sempre più incontrollabili. Più che alla Scala pare di essere a San Siro.
Lui sta al gioco, scambia battute con il pubblico che lo incita a cantare or questo or quel brano. Si avvicina al pianoforte dove siede il maestro Vincenzo Scalera, prende una partitura e, come fosse un cameriere finge di annotarvi le «ordinazioni». «Qualcuno vuole anche una amatriciana? — scherza —. Ero alle stelle anch’io. Quando s’instaura una certa atmosfera mi piace infrangere le barriere».
Juan Diego non si fa pregare. Un pezzo da La belle Hélène , l’inevitabile «Una furtiva lacrima», poi «Granada» e l’aria dalla Martha di Flotow… Dice no solo ai «nove do» dalla Figlia del Reggimento . «Li faccio sempre, ma l’altra sera non era il caso…». Attacca invece una canzone peruviana che scatena gli ardori dei connazionali in sala al grido di «Viva il Perù!». «Viva l’Italia, viva Milano, viva la Scala» risponde Flórez, legatissimo al nostro Paese.
A proposito di Scala, fa proprio così paura ai cantanti? «Ogni concerto qui è speciale. C’è una tensione maggiore, un pubblico più preparato, più severo. Arrivi in scena con maggior timore ma anche maggior rispetto. Alla Scala ho debuttato a 23 anni, il 4 luglio tornerò per l’ Otello di Rossini nel ruolo impervio di Roderigo. E l’anno prossimo festeggerò i miei 20 anni di fidanzamento scaligero. Qui mi sento a casa».
In omaggio all’Italia intona «Torna a Surriento». «Canzone a me carissima. La cantava mio nonno, mia nonna la suonava al piano… Quando ragazzo, uscii per la prima volta da Lima per andare a New York per un’audizione, in tasca avevo solo il biglietto d’aereo e pochi dollari. Tutto quello che mia madre era riuscita a racimolare vendendo la sua vecchia auto. Per poter mangiare andavo nel metrò e aprivo l’astuccio della chitarra. Che dopo “Surriento” scintillava di monetine. Una canzone davvero magica». Quelle origini difficili non le ha scordate. «La mia famiglia era povera, ma la povertà vera è un’altra cosa. Anche con la musica si può combatterla».
Nel 2011 crea «Sinfonia por el Perù», fondazione che sull’esempio del «Sistema» venezuelano si rivolge ai giovani più disagiati. «Finora sono 3000 i ragazzi che nelle nostre orchestre e cori hanno trovato un’alternativa al degrado, alla droga, alla criminalità. Per raccogliere i fondi l’anno scorso è nata l’Harmonia Orchestra che raccoglie musicisti provenienti da progetti simili. E l’anno prossimo a Vienna aprirò un’Accademia dove cantanti affermati verranno a insegnare a giovani talenti che non possono pagarsi gli studi».
Ragazzi dal mondo, tutti un po’ figli suoi. «Ma quelli di sangue sono i miei due piccini, Leandro e Lucia». Ovviamente nati per la musica… «A un anno e mezzo Lucia canta già benissimo, se io attacco un’aria lei la finisce. Diventerà un soprano» profetizza il papà. E Leandro? «Forse canterà anche lui. Non ci vuole poi molto per essere un tenore. Sa come si dice, testa di tenore…».
Giuseppina Manin