Elena Martelli, il venerdì 19/6/2015, 19 giugno 2015
NESSUNO AL MONDO HA IL MIO XFACTOR
[Simon Cowell]
MILANO. Nel camerino di Simon Cowell, a Milano per partecipare qualche settimana fa all’ultima puntata di Italia’s Got Talent, fa un caldo micidiale. Ma non è per questo motivo che lui ha la camicia bianca spalancata sul petto abbronzato. Quella fa parte della sua divisa, assieme alla giacca e ai pantaloni neri, all’abbronzatura permanente e alla dentatura bianco-mattonella. Un look che l’ha fatto diventare celebre come una star in Inghilterra, dove è nato e dove ha iniziato a occuparsi di musica da produttore, e poi negli States. E che gli è servito a definire il suo status di giudice cattivello, prima a Pop Idol in Gran Bretagna e poi ad American Idol, negli Stati Uniti.
Questa però è preistoria, sebbene i paparazzi gli diano ancora un gran daffare, e i talent siano ancora il suo pane quotidiano. Tuttora continua a essere il giudice acido di XFactor e Got Talent Uk, sfoderando il medesimo e irresistibile copione. Il famigerato Cowell touch. La differenza tra ieri e oggi è che i format di Got Talent e XFactor (prodotti in Italia da Fremantle Media, in onda su Sky Uno, ed esportati in tutto il mondo) li ha creati lui, rivoluzionando la musica pop e la tv come uno tsunami. Lui ha scoperto Susan Boyle e gli One Direction, solo per citare i due fenomeni musicali lanciati dalla Syco, la sua etichetta discografica, con cui produce sia gli show per la tv che i dischi. Un giro d’affari che, solo per quel che riguarda la musica, gli ha fatto vendere più di 300 milioni di dischi. A 55 anni, e un figlio avuto di recente, è uno dei boss più potenti della musica internazionale. Con una vita da rock star: sveglia tardi la mattina, sigaretta sempre tra le dita e beveroni vitaminici per compensare fumo e vita senza orari. La simpatia per queste due anime in una è immediata.
Lei vende i suoi format in tutto il mondo. Quanto sono influenzati, ogni volta, dalla cultura dei diversi Paesi in cui vanno in onda?
«Lo show è sempre il riflesso del Paese in cui è prodotto. In Italia, dove penso ci sia la versione migliore di X Factor, domina il vostro sense of humour. Cosa interessante anche dal punto di vista musicale. Lo avevano i Beatles come gli One Direction. Lo show in sé non deve prendersi sul serio, ma deve essere ironico. Qui si cerca un cantante da lanciare su mercato. E ci deve essere equilibrio tra la ricerca d’ironia e la ricerca del talento».
I talent show hanno cambiato più il mondo della pop music o quello della tv?
«Entrambi. Ma quel che noi abbiamo cambiato è il rapporto con la musica. Noi facciamo tv da produttori musicali. E cerchiamo talenti per lanciarli con la nostra etichetta. Non siamo gente di tv ma di musica. Prima non era così. Abbiamo inventato le audizioni, la giuria, le squadre...».
Le crìtiche, però, vi hanno massacrato, soprattutto i primi tempi. Pure Elton John si è scagliato contro di voi.
«Anche lui ha cambiato un sacco di volte stile, reinventandosi. Anche lui ha trasformato se stesso in una pop star, come David Bowie. La pop music è sempre stata così: non conta solo come canti ma anche come sei, come ti muovi, come ti vesti. E questo valeva per Frank Sinatra, per Elvis e per i Beatles. Il modo in cui stai in scena può farti diventare popolare. Il processo di cambiamento, nel mondo della musica è cominciato con Mtv negli anni 90».
L’altro rimprovero che vi fanno è che avete ucciso la gavetta.
«Sì, e in un certo senso concordo. Ma è internet ad aver peggiorato tutto. Un ragazzino può fare miliardi incidendo un pezzo nella sua cameretta, davanti a un computer. Senza nemmeno bisogno di uscire dalla sua stanza e senza affrontare il pubblico. Anni fa era diverso. Dovevi andare nei club, fare i concerti. Non so che problemi porterà tutto questo, ma oggi è così. Devo preoccuparmi? Ma no. Perché se anche scopri un solo artista in un anno, quello giustifica il senso dello show. Molto peggio il crollo delle etichette. Prenda Susan Boyle: nessuno l’aveva presa».
Con Susan Boyle voleva dimostrare che si può creare una pop star dal nulla, investendo su una donna che non risponde ai canoni, non solo estetici, dello star system?
«Quell’esperienza è stata una grande lezione. Quando Susan è arrivata sul palco ho buttatogli occhi al cielo. “Oddio”, ho pensato. E le ho detto cose terribili, come al solito. Poi però ho capito che non posso essere sempre conformista. Lei, tra l’altro, continua a vendere, ormai è un modello. E penso anche che abbia cambiato la vita a molti altri. È stata come un risveglio, per me».
Lei e John de Mol, l’inventore di Grande Fratello e di The Voice, arrivato dopo X Factor, siete i due più grandi innovatori della televisione di questi ultimi 15 anni. Chi di voi è il più importante?
«Sono contento di questa domanda. John lo rispetto per quello che ha fatto. Perché è stato molto intelligente. E a volte non devi essere creativo ma solo intelligente. Ha guardato a quello che stavamo facendo e, lo dico anche se sembra un complimento cinico, ha creato uno show diverso con una buona idea, quella della sedia girevole. La differenza però fra noi è che io amo la musica e lui la fa. Ma lo rispetto come businessman anche se io non avrei mai potuto fare uno show con le sedie girevoli. Sono truechetti tv. Io vengo dalla musica».
Non è nemmeno un grande amante dei reality, tra l’altro.
«All’inizio avevano un senso. Fantastico. Ma ora le persone che vanno lì sono troppo coscienti delle telecamere, vogliono diventare famose. Questa non è realtà, ma un falso. Qui nei talent sì che c’è la realtà».
Diciamo che nei talent c’è gente che sa fare qualcosa e al Grande Fratello solo gente che vuole diventare famosa...
«John De Mol fu geniale. Ma noi abbiamo iniziato a fare tv perché volevamo trovare dei cantanti da assoldare per il mercato. Lo show è un veicolo per trovare una star. Poi è diventato quel che è diventato, ma lo scopo è sempre lo stesso: lanciare una carriera. Non fare tv per la tv».
Come producer, cosa ne pensa di Zayn Malik che ha lasciato gli One Direction?
«Questa è ahimè la realtà. Accade, non è una cosa buona, io non l’avrei mai fatto. Ma che Zaid voglia continuare da solo è legittimo. È stato uno shock, ma anche una prova per gli altri, che sono diventati più uniti. La verità è che quando uno lascia perché non è felice, cosa puoi dire?».
Nel futuro c’è La Banda. Uno show in cui si deve trovare una boy band per il mercato sudamericano.
«Abbiamo fatto il test a Miami con Ricky Martin ed è andato benissimo. La novità è che prima di andare dai giudici sei votato da una platea con il telefonino. Iniziamo con il Sudamerica ma poi, posso già annunciarglielo, in due anni andrà ovunque».
Elena Martelli