Piero Melati, il venerdì 19/6/2015, 19 giugno 2015
VITA E AMORI ESOTERICI DI SIBILLA
ROMA. Nella soffitta di Sibilla, in via Margutta, probabilmente non mise mai piede. Fisicamente, s’intende. Ma quanto a puro spirito, invece, fu presente come una visione fantasma. Cesarina Ribulsi, archeologa, esoterista, ex segretaria della nobildonna piemontese Maria Camilla Mongenet, personalità di spicco della Fratellanza di Miriam, setta fondata dall’ermetista partenopeo Giuliano Krammerz, ebbe un gran ruolo nella vita di Sibilla. Era stata lei la misteriosa «signora in rosso» che, il 19 maggio del 1923, aveva portato al presidente del consiglio Benito Mussolini un’ascia bipenne di origine etrusca fasciata da dodici verghe di betulla, legate da cinghie di cuoio rosso. Un’arma da guerra, espressione di una antica profezia.
Non chiamiamo per vezzo la Aleramo con il suo nome di battaglia, Sibilla. I circoli esoterici romani, che la scrittrice nativa di Alessandria e morta nella capitale nel 1960, a lungo frequentò, attribuivano grande importanza «mistica» al nome d’artista (l’anagrafe l’aveva invece più prosaicamente battezzata Marta Felicina Faccio, detta Rina dagli amici). Ma cosa lega, nella Roma degli anni Venti e del delitto Matteotti, la nostra Sibilla alla misteriosa «signora in rosso» che regalò al Duce l’ascia etrusca? Una storia d’amore, anzitutto. Di passioni sensuali scatenate e di elettive affinità dantesche e stilnoviste. Dai circoli magici della «signora in rosso» veniva infatti il bellissimo ed enigmatico ventenne Giulio Parise, di trent’anni più giovane di Sibilla, allora cinquantenne, al quale lei dedicherà due romanzi, chiamandolo Luciano (Amo dunque sono del 1927 e Il frustino del 1932), al culmine di una attrazione tutta intrecciata sugli altari della magia e del mito.
Cominciamo da lui, Giulio Parise, il mago. Oggi sepolto nel cimitero del Verano, una lapide richiama simboli massonici. Ha lasciato due figli e poche tracce. Sappiamo che è stato tra i protagonisti della rinascita della «fratellanza» romana e l’estensore del regolamento della loggia di rito scozzese Giuseppe Mazzini. Del suo «segreto magistero di iniziato» non resta documento, una volta perduto l’epistolario con la Aleramo, a detta dei figli custodito per tutta la vita. A scoprire questa storia, mai finora scritta, è stato Simone Caltabellotta, autore per Ponte alle Grazie di Un amore degli anni Venti (Storia erotica e magica di Sibilla Aleramo e Giulio Parise, Ponte alle Grazie, pp. 192, euro 13).
L’ascia bipenne del Duce fu ben più che galeotta, in questa italica epopea d’amore. Il bellissimo Giulio era sbarcato a Roma al seguito dello stesso giro di ambienti fiorentini dal quale provenivano Arturo Reghini, un guru dello spiritualismo nostrano, e il giovane Giulio Cesare Andrea Evola, pittore e poeta dadaista, che allora si faceva chiamare non ancora Julius ma Jules, il futuro Barone Nero del fascismo, morto a Roma nel 1974, primo traduttore del Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler (il filosofo tedesco che chiamava Hitler per nome, Adolf, e che in seguito gli dette del «cretino»). Evola è tuttora noto per i suoi studi sulla razza e le religioni tradizionali, la sua opera è divulgata in tutto il mondo, è stato amico di Ernst Junger e René Guénon, è amato dai movimenti di destra di ogni tempo quanto gli autori delle «Bibbie nere» Ernst Von Salomon I proscritti) e Carlo Mazzantini (A cercar la bella morte).
Sibilla Aleramo era stata l’amante di Evola e presto lo divenne anche di Giulio. Segnata da un’infanzia devastante (madre suicida, fu violentata, perse il bambino ma la costrinsero a sposare il suo stupratore), militante socialista e fieramente femminista, frequentò a Milano Maria Montessori e Matilde
Serao. Poi, legatasi a Giovanni Cena, scalverà il suo capolavoro, Una donna. Conoscerà D’Annunzio, Quasimodo, Papini, Deledda, Apollinaire, Joyce e intreccerà una storia d’amore devastante con il poeta Dino Campana. Infine, una avventura con Eleonora Duse, scabrosa per i tempi, porterà Prezzolini a definirla «il lavatoio sessuale della cultura». Forse per reazione (lei che, dopo il 1945, diventerà comunista e tesserà l’elogio anche fisiognomico di Palmiro Togliatti) si tuffa nell’avventura esoterica, dividendo il talamo con Evola.
E l’ascia estrusca? Era il simbolo che racchiudeva il sogno segreto del fascismo. Attorno a quell’utopia gravitarono le riviste di studi esoterici (tra tutte Ignis e Atanor) animate dal gruppo di Ur; la cosiddetta «setta dei Magi» guidata da Reghini, Evola e Parise. L’ascia rappresentava il fascio littorio. Solo che quello originario era stato disegnato sulla falsariga dell’emblema patriottico risorgimentale e di quello rivoluzionario francese. Risultato? «Sembra un mazzo di asparagi» aveva tuonato l’archeologo Giacomo Boni, incaricato di far tornare il marchio alla purezza della «più alta magistratura romana».
Non era questione di lana caprina. Il grappo di Ur, per esempio, era convinto che il fascismo italiano dovesse ritrovare le radici della «tradizione» di Roma, spezzando ogni legame con il cattolicesimo. E questo valse una potente opposizione da parte del futuro papa Paolo VI, Giovan Battista Montini. Ma negli anni in cui gli venne regalata l’ascia etrusca, Mussolini era ancora incerto. Subiva la suggestione imperiale al pari di Napoleone Bonaparte, prima della successiva abiura di ogni deriva spiritualista che lo porterà, nel 1929, alla firma dei Patti Lateranensi con la Chiesa. Ma in quegli anni, inzuppate in una Roma magica, fioccavano leggende. Aveva fatto scalpore il ritrovamento dell’ascia magica da parte dell’archeologo Evelino Leonardi, in un bosco di betulle bianche presso le rive dell’Aniene, a due passi dall’Urbe. E il 31 ottobre del 1923, il Duce in persona si era recato nei luoghi sacri del tempio di Venere, a rendere omaggio agli antichi culti. Qui, si narrava, erano stati officiati riti profetici sin dai tempi della Grande Guerra, quando era stato previsto un glorioso destino per l’Italia. E la profezia, si diceva, era stata rinnovata di recente da nuovi rituali. Un «oracolo» era apparso.
Sono pazzi questi romani, avrebbe detto anni dopo Obelix, uno dei personaggi dei francesi Albert Uderzo e René Goscinny, nel rappresentare la saga a fumetti dei Galli che combattevano l’Impero di Cesare. Ma, ancora all’epoca della nuova profezia, in via Gregoriana, sorgeva la sede della Lega Teosofica. E faceva da calamita alle più profonde suggestioni. In piazza Nicosia 35, dove oggi c’è un supermercato, il Barone Nero Evola teneva corsi di «cultura spirituale», che a volte vedevano presenti anche antifascisti come Giovanni Amendola o il duca Giovanni Antonio Colonna di Cesarò. Da queste parti lo studioso dantesco Luigi Valli incontrava il filosofo Adriano Tilgher, l’orientalista Giuseppe Tucci, l’erudito conte Tommaso Gnoli, lo storico delle religioni Raffaele Pettazzoni, il poeta Arturo Onofri. In questo clima, al teatro Valle, Sibilla Aleramo rappresenta la sua controversa opera Endimione e, tra Giacomo Debenedetti e Piero Gobetti presenti tra il pubblico, conosce per la prima volta i Magi di Ur.
Presto disgustata da Evola («sei vanitoso, vizioso, perverso, avevi fantasticato chissà quale avventura necrofila» gli scriverà), sarà proprio una delle amanti del Barone Nero, la marchesa Livia Picardi, a presentarle il bellissimo ventenne Mago Giulio. «Vedrai, è perfetto. Egli si sveste con molta disinvoltura, non v’annette importanza. Se ti piacerà, te lo donerò. Un dono regale...». Sibilla cade così in una strana rete. Passa dai salotti di lusso e dai più prestigiosi alberghi europei alla soffitta di via Margutta, non prima di dover lasciare in pegno il proprio baule all’Hotel Elysée per morosità. Un episodio la dice lunga sulla portata dell’incantamento. Il 7 aprile del ‘26 una irlandese, Violet Gibson, spara al Duce, ferendolo al naso. Prima che venga dichiarato il gesto isolato di una matta, il duca Colonna di Cesarò viene sospettato di averle armato la mano grazie a un «comando telepatico» ordito da una «catena magica». L’ipotesi non era considerata priva di fondamento. Intanto, il ferimento di Mussolini porterà il regime a disporre la chiusura e lo scioglimento di ogni tipo di associazione segreta, massoneria compresa. E poi, era noto a tutti che i Magi di Ur propugnavano la formazione di «catene magiche», allo scopo di influenzare la politica del fascismo. Come? Nel modo più banale: tramite semplici annunci pubblicitari. Scrivevano nelle loro riviste: «Coloro che, ritenendo di poterlo, vogliono entrare in questa catena, ci comunichino indirizzo, nome, cognome e data di nascita». Ma, piccati, precisavano anche: «Coloro che da noi chiedono l’iniziazione come potrebbero chiedere che si estragga loro un dente, ovvero le visioni come potrebbero vederle al cinematografo, sbagliano strada. Salvo in casi d’eccezione, noi ci limitiamo a dare delle vie e dei mezzi, affinché chi vuole faccia».
Anche Sibilla viene sottoposta ai riti per «attrarre forze superiori e trascendenti», tali da determinare «una coagulazione di luce astrale, che può proiettarsi in una figura psichica». Solo che, nel suo caso, non si tratta di evocare i poteri dell’antico mitraismo, per far marciare contro il nemico una armata di fantasmi. No. Nel suo caso, il giovane Mago le chiede di unirsi con lui a distanza. È il mito alchemico del due che diventa uno, rappresentato dalla figura dell’Ermafrodito sacro. Più volte, nel diario, Sibilla annota i frutti dei tentativi: «Mi son concentrata nel suo nome, nulla...mi ha suggerito di concentrarmi nel pensiero di un’entità cosmica, p.e. lo spirito del sole...ancora nulla». Alla fine lo tradirà con un aviatore, Furio Drago. E reciderà il legame: «La mia poesia nasce dalla mia passione di donna. Non posso snaturarmi. Già troppo ho sconfinato. Sono sull’orlo della follia. Folle è Onofri, folle è Luciano, ma in ambedue il delirio è lucido. In me, se mi lasciassi afferrare, diverrebbe tenebra».
Piero Melati