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 2015  giugno 19 Venerdì calendario

UN BOCCONE E VIA – [LA STORIA È SERVITA: L’ULTIMA CENA DI 50 PERSONAGGI FAMOSI]


MADRID. Persino il boia ha una regola: prima della forca, il condannato può scegliere il pasto, l’ultimo. C’è chi se n’è approfittato, come quel Russel Brewer che chiamò le guardie carcerarie texane e ordinò: «Portatemi due fettine di pollo fritto, un triplo hamburger di grasso di maiale con formaggio, tre fajitas messicane e una pizza». Prima dell’iniezione letale per un orrendo delitto razzista, Russel volle anche il dessert: mezzo chilo di gelato e un barra di burro di arachidi. Una provocazione più che un pasto (pare infatti che non mangiò quasi nulla), ma nessuno poté bloccarlo, anche l’assassino aveva diritto a essere servito e riverito. In Florida, per evitare eccessi del genere, il dipartimento penitenziario ha formulato un nuovo regolamento: «Prima dell’esecuzione, il condannato può chiedere l’ultimo pasto. Ma per evitare stravaganze il suddetto non può superare i 40 dollari e dovrà realizzarsi soltanto con prodotti comprati in zona».
Ma a pochi è andata bene, in quanto a cibo, come al razzista del Texas: l’ultima cena, come la molte, arriva spesso all’improvviso e lascia alla storia e nello stomaco cibi non sempre indimenticabili.
Il giornalista peruviano (ma spagnolo d’adozione) Eric Frattini, trascurando per un po’ le sue inchieste complottistiche sul Vaticano e non solo, si è preso la briga di ricostruire il pasto finale di 50 personaggi della storia, da Cleopatra a Sharon Tate, da Rasputin a Heath Ledger. Ne è uscito fuori Muerte a la carta (Morte alla carta), edito, per ora soltanto in castigliano, da Poe Books (su Amazon, pp. 226, euro 20). Un lavoro lungo e minuzioso, impreziosito dal contributo di Andrés Madrigal, chef pluristellato di Madrid, poi emigrato a Panama, che si è messo a interpretare a suo modo queste storie, creando piatti e indicando la ricetta.
Un libro di cucina, insomma, ma anche di storia, partendo necessariamente da Gesù e gli apostoli: «Un modo» spiegano i due nell’introduzione «per divertirsi con la gastronomia».
Molto meno si sono divertite le cinquanta vittime prese ad esempio, che in realtà sono di più, perché tre schede sono dedicate ai passeggeri del Titanic, del Concorde e dell’Hindenburg. Per nessuno di loro il cibo fu la causa unica della morte, magari certi mix, però, non risultarono salutari.
Jimi Hendrix, quella maledetta notte del 17 settembre del 1980 non aveva esagerato, almeno non a tavola: al ristorante dell’hotel Samarkand di Londra chiese due panini al sesamo con tonno fresco e una bottiglia di vino, che non finì. Cibo leggero al quale, però, si andarono a sommare almeno due anfetamine black bomber prese al party di un amico.
«L’idea mi è venuta proprio leggendo una biografia di Hendrix, nella quale veniva descritta il suo ultimo pasto» racconta Frattini seduto al tavolino di un bar del quartiere Salamanca a Madrid: «È un modo per ripercorrere la storia di grandi personaggi». Dietro, spiega, c’è un lavoro d’archivio: «Sono andato a studiare le analisi forensi. Una cosa morbosa? Sì, come la gastronomia».
Un tremendo miscuglio fu trovato tre anni prima dai medici che fecero l’autopsia sul corpo di Elvis Presley. L’ultimo piatto è degno di uno stereotipo americano: spaghetti con le polpette e poi, come dolce, gelato di vaniglia e cioccolato con dei biscotti. Il problema, però, furono le pasticche (non è chiaro di quale natura, qualcuno parla di quelle prescritte dal dentista ), che gli procurarono uno shock anafilattico. Lo stomaco di Heath Ledger, il Joker di Batman, morto a 28 anni, conteneva un unico cibo non digerito: un muffin, preso al caffè Mirò sulla Broadway (oggi negozio di scarpe), durante un delle sue passeggiate notturne per le strade di New York.
Anche nel suo caso il pasto frugale è del tutto innocente: l’autopsia ha stabilito che la morte è da attribuire all’abuso di farmaci.
Pochi chilometri più in là, John Lennon trascorse il suo ultimo giorno, nel dicembre del 1980, prima di essere assassinato da David Chapman. Il destino è stato infame, ma il pranzo no: panino con la carne e la mostarda nell’amato ristorante italiano Baci e abbracci (anche se è stata avanzata un’altra ipotesi: una pizza con mozzarella, cipolla e pancetta). Una cena italiana sarebbe stata chiesta anche da Marilyn Monroe nella sua casa di Los Angeles, dove poi fu ritrovata morta: i giornali dell’epoca, era il 1962, parlarono di «italiani fettucini», che, al netto dell’approssimazione linguistica, testimoniavano l’amore della diva per la nostra cucina.
Destino sciagurato lo ebbero i passeggeri, in gran parte tedeschi, del Concorde che nel 2000 prese fuoco poco dopo il decollo a Parigi. La morte arrivò, quindi, senza nemmeno prendersi uno sfizio: la cena di bordo con il menù firmato Alain Ducasse, che nessuno fece in tempo a consumare.
A Frattini e Madrigal, non c’è dubbio, interessa seguire le vicende dei condannati. Nel libro ce ne sono tre le cui storie sono note, ma forse non nell’ottica gastronomica: Saddam Hussein, il gerarca nazista Eichmann e il mafioso italo americano John
Gotti. Il dittatore iracheno fu servito nella sua cella da un secondino d’eccezione: l’ex cuoco dell’hotel Al Rashid, un tempo l’albergo più lussuoso di Bagdad. Saddam, però, non è nell’animo di apprezzare: beve un bicchiere d’acqua calda col miele, scansando il pollo in salsa di datteri e riso che gli era stato messo nel vassoio. Adolf Eichmann, invece, attese la forca nel carcere di Ramla, in Israele, sperando in una grazia in extremis del presidente Ben-Zvi. Quando fu chiaro che la clemenza non sarebbe giunta, si rassegnò ed evitò di mangiare, l’unica cosa che chiese fu un bicchiere di vino rosso delle cantine Carmel (fondate, ma lui non lo sapeva, dal barone Rothschild, della famiglia dei banchieri che finanziarono la nascita dello Stato d’Israele). L’ultima cena del gerarca ha posto un problema allo chef Madrigal: quale ricetta creare quando l’unico ingrediente è un bicchiere di vino? La soluzione è creativa: una granita. Il padrino di New York John Gotti si risparmiò la pena capitale ma non l’ergastolo. La morte lo colse nella prigione federale di Springfield nel giugno del 2002, poco dopo aver ordinato un pranzo degno di un ristorante del Queen’s: carne di manzo del Texas, parmigiano fuso, patate al forno e una bottiglia di vino bianco fresco.
Senza rimpianti culinari se n’è andato anche James Gandolfini, morto nella sua camera d’hotel nel centro di Roma proprio il 19 giugno di due anni fa, mentre era in vacanza col figlio. La sera prima del malore fatale, il grande attore americano si era tolto la soddisfazione di provare i piatti dello chef Niko Sangalli, del Boscolo Exedra, di cui aveva letto sui giornali. Mangiò gamberi fritti (con maionese e salsa chili), foie gras, bevendo rum, piña colada e due birre ghiacciate. Poi addio. E noi qui, più o meno a dieta, e senza di lui per sempre. Che mestizia.
Francesco Olivo