Enrico Dal Buono, Riders 19/6/2015, 19 giugno 2015
UN TROMBONE IN TECHNICOLOR
[Oliviero Toscani]
Disastro. Questa è la parola che ricorre più spesso in un’ora di conversazione con Oliviero Toscani: tredici volte. Dis-astro, stella avversa, che va nella direzione opposta a dove vorresti, sole che ti viene addosso, che ti investe, che ti brucia. «La fotografia non deve mai essere morale, l’arte non deve mai cercare il consenso» dice Toscani. E i suoi dis-astri ce li ricordiamo tutti: preti che baciano suore, africani che brandiscono femori umani, corpi annientati dall’anoressia, condannati a morte che guardano in camera. E Renzi? Un disastro anche lui. Berlusconi? Disastro. Sorrentino? Disastro. Expo? Disastro! L’Italia tutta? Disastro! Il Medio Oriente? Disastro, disastro! Eppure la fotografia trova un ordine nel caos, la Bellezza nel Male. E lo fa grazie al colore: tutto ciò che sta tra il bianco e il nero, tra il Tutto e il Nulla.
Lei, che con le sue campagne pubblicitarie ha plasmato l’immagine di United Colors of Benetton e che ha fondato la rivista Colors, che cosa ne pensa del colore?
«Penso che sia più facile fare uno scatto in bianco e nero: lavorare coi colori è un gran casino. Anche se c’erano i carboncini, prima della fotografia l’arte rappresentativa era soprattutto colore: dipinti, affreschi. Il concetto di bianco e nero che abbiamo tutti in mente nasce proprio con la fotografia, ma è un inganno, tutt’al più un asintoto. Noi vediamo a colori, viviamo nel colore anche quando guardiamo il bianco, che tende all’unità di tutti i colori senza mai raggiungerla, e addirittura quando guardiamo il nero, che tende all’assenza del colore ma se lo vedi vuol dire che non è mica assoluta».
Insomma, impossibile sottrarsi alla cromo-tirannia.
«Esatto. Provi a prendere una matita rossa. La guardi bene, poi se la metta in bocca – non dalla parte della mina, altrimenti si sporca la lingua. Ecco, sentirà un sapore. Ora prenda una matita verde e faccia la stessa cosa: sentirà un altro sapore. I colori cambiano il gusto, i colori cambiano il tatto: non sarà la stessa cosa accarezzare una palla azzurra e una palla rosa. Oggi ti vesti con una maglietta gialla e ti senti in un modo, domani con una grigia e ti senti in un altro».
Forse solo i ciechi sono liberi dallo strapotere della vista.
«Non posso dirlo con certezza, ma credo di no. Noi vediamo anche quando chiudiamo gli occhi, perché immaginiamo. Pure un cieco dalla nascita immagina, quindi vede. Idea viene dal greco ἰδεῖ̿ (idein, ndr), che vuol dire vedere. Se vivi vedi e, se vedi, vedi a colori: se vivi, vivi colorato».
Come ha imparato a usare il colore per realizzare fotografìe memorabili?
«Negli anni ’6o ho frequentato la Kunstgewerbschule di Zurigo: il preside era Johannes Itten, il maestro del colore della Bauhaus, che ha creato la ruota dalle dodici tonalità e ha riflettuto a lungo su questi concetti. Le sue lezioni mi hanno aperto un mondo».
A proposito di Bauhaus, scuola artistica che teorizza la fusione tra arte e industria, qual è il confine tra opera d’arte e marketing?
«La vera arte non deve cercare il consenso, non ha morale, non mira al successo del mercato».
Possibile che la pubblicità possa fregarsene del successo del mercato?
«Sì, e io l’ho dimostrato in un modo grandioso».
Industriali e amministratori delegati condividono questa posizione?
«Raramente, soprattutto in Italia. Si parla ancora di Adriano Olivetti, morto da 55 anni. E poi chi c’è stato? Nessuno, un disastro. Bisogna tornare indietro fino ai grandi papi, fino a Lorenzo il Magnifico, che si occupava di denaro meno di tutti i suoi fratelli e che così ha creato più ricchezza di loro. Un grande imprenditore è sempre anche un grande mecenate».
E adesso?
«Un disastro. Nessuno si prende più un rischio. Senza rischio non c’è imprenditorialità, non c’è futuro, non c’è economia. La crisi sta proprio qui: ricerche di mercato e bocconiani, la mediocrità elevata a sistema, gente che può solo guardare indietro. Un disastro».
Il suo rapporto con Benetton è finito perché l’azienda si scusò coi parenti dei condannati a morte che lei aveva scattato con l’inganno per una campagna pubblicitaria, venendo poi accusato dallo Stato del Missouri di falso fraudolento?
«Assolutamente no. Avevamo deciso già tre anni prima di interrompere la collaborazione quando avessi finito il lavoro sui condannati. Così, nel 2000, ci siamo salutati di comune accordo. Dopo 18 anni era arrivato il momento di andare ognuno per la propria strada».
Non è neanche vero che Benetton subì pesanti danni commerciali e dovette chiudere 400 punti vendita?
«Tutte balle. Una versione creata dalla stampa per vendere più copie. L’unico contratto che fu rescisso fu quello con la catena di grandi magazzini Sears. Costituivano il 7% delle vendite negli Stati Uniti e mettevano i prodotti Benetton tra pneumatici e batterie. Era solo dannoso per la sua immagine, Luciano Benetton ne fu felice. Ma ai media faceva comodo dire il contrario».
Quanto i mass media continuano a influenzare la realtà?
«Molto, ma ci sono forme di ricezione più passive e più attive. Il 95% di ciò che conosciamo oggi lo conosciamo perché abbiamo visto delle foto. Lei ha mai incontrato Obama? Eppure l’ha visto innumerevoli volte, di certo ha perfino un’opinione su di lui. Anche un filmato influenza il pubblico, ma un’immagine ferma lo obbliga ad assumersi attivamente la responsabilità della ricostruzione, a collaborare con l’artista. Nel cinema c’è un inizio, una fine, uno sviluppo deciso da altri. Nella fotografia è l’osservatore che viene stimolato a far lavorare la testa, a ricostruire autonomamente la storia da un solo fotogramma. L’immagine è diventata più reale della realtà».
Una partecipazione attiva del fruitore che spesso viene considerata anche il vantaggio della letteratura sul cinema, no?
«No. La fotografia, prima di tutto, non ha bisogno di traduzioni. Poi, anche nella narrativa c’è una storia inventata da altri: ogni sviluppo è in gran parte già deciso».
Legge romanzi?
«No. Leggo solo saggi tecnici e quotidiani internazionali. Non mi va che la mia libera immaginazione si ingozzi di pensieri altrui. Sono un situazionista, preferisco alimentare la mia testa con quello che mi sta attorno, piuttosto che con idee predigerite».
Guarda film?
«Non vado al cinema da vent’anni. Mi capita di guardare un film solo sull’aereo, quando non sai proprio come ammazzare il tempo. È diventato tutto uguale, una noia mortifera: ti amo, tu non mi ami, allora t’ammazzo. Violenza ed effetti speciali. Un disastro».
Cè qualcuno dei nuovi registi italiani che le piace? Che so, il premio Oscar Sorrentino?
«Un disastro. Tutto già visto, e visto meglio, in Fellini e Antonioni. Il cinema è un’arte del ‘900, è morto, non ha più senso andare in una sala buia a vedere due ore di cagate delle quali, alla fine, ti ricordi solo pochi fotogrammi. Paradossalmente la fotografia è invece ancora vivissima, perché è più adatta a rappresentare la vita reale, che è fatta d’istanti».
Renzi come lo scatterebbe?
«Non lo scatterei, è una noia estetica, non ha nulla d’interessante dal punto di vista fisico. Si presenta come un innovatore quando, se lo guardi bene, non sembra che un tipico personaggi degli anni Sessanta, è in ritardo di mezzo secolo. Come fai a essere conciato così a 40 anni? Un disastro. Guarda invece Obama, che classe!».
E Berlusconi?
«La sua essenza estetica è quella del clown, col cerone color cacchetta in faccia, quella specie di polentina marrone di capelli finti in testa e con le sue parlamentari barbie doll. Lo conosco, non posso dire che sia antipatico, ma è stato né più né meno che un disastro politico e sociale per tutta l’Italia. A partire dal Drive-in e dal suo gusto tele-idiotico che ha rovinato un paio di generazioni».
Preferisce come stanno crescendo i giovani di adesso, con i social network al posto delle tv commerciali?
«No, un disastro anche quello. Ma sì, fatti un selfie, prenditi il tuo secondo di popolarità e mettiti in ordine alfabetico tra gli altri cretini su Facebook. Fatti la tua bella foto coi filtri su Instagram, tanto la fotografia è l’arte più facile di tutte. Anche un asino può scattare una foto interessante se ha la fortuna di pestare lo zoccolo sul tasto in un buon momento».
Di Expo che cosa ne pensa?
«È partito, questo è vero. Ma non è finito e, invece di “nutrire il Pianeta”, fa gli interessi delle grandi multinazionali. Non si capisce niente, un logo osceno, episodi di corruzione, tutto “all’italiana” un disastro».
E dell’Italia che cosa pensa?
«Un Paese che non vuol bene alle persone oneste e che ama i delinquenti. Se sei bravo, se ti dai da fare, lo Stato ti sequestra con tasse e burocrazia. Io non ho mai avuto un aiuto dal mio Paese. Non se ne può più dei Renzi, degli Alfano, dei Berlusconi. Dei sindacati, che hanno reso insopportabile il concetto di lavoro. Un disastro».
E del quadro geopolitico globale?
«In Medio Oriente abbiamo combinato un casino. Pensiamo di essere una civiltà superiore quando abbiamo causato solo dei disastri. Non ultimo il problema dell’immigrazione, che non puoi certo risolvere con guerre e blocchi navali. Un disastro, un disastro».