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 2015  giugno 19 Venerdì calendario

PERCHÉ CONTINUIAMO A PUBBLICARE LIBRI NON NECESSARI?

Ogni volta che mi trovo a parlare di temi che riguardano l’editoria, ho un mio personale Baedeker, il numero 19 di Panta, rivista aperiodica fondata da Pier Vittorio Tondelli, Alain Elkann, Elisabetta Rasy e me, negli Anni 90, alla Bompiani, il cui nome venne suggerito da Alberto Moravia: Panta Editoria, a cura di Laura Lepri e Roberto di Vanni, uscito nel 2001. Sulla quarta di copertina viene riportato sia il prezzo in lire (36.000) sia il prezzo in euro (18.59, evidentemente allora si stava attenti al cambio).
La domanda che ci si poneva allora, nel 2001, con Panta Editoria, è la stessa domanda che, ad esempio, oggi si pone una rivista autorevole come Pretext, rivista di libri e di editoria. Una domanda riassumibile in una bella espressione di uno scrittore e grande editore tedesco, Michael Krüger, anima, sino a pochi anni fa, della casa editrice Hanser di Berlino: «Che senso ha fare letteratura in un mondo non letterario?».
Scriveva Krüger, a proposito della Germania (un Paese ad alta densità di lettori, ben superiore all’Italia): «Tutti questi libri, queste inconcepibili pile di libri, vengono venduti più o meno in tremila librerie. Quello che non viene venduto finisce nei negozi di libri usati, e ciò che non vende neanche lì, va al macero. Un business gigantesco, una macchina gigantesca, una truffa gigantesca». Una truffa. Ma una strana truffa, in cui il truffatore truffa se stesso: i grandi editori pubblicano grandi quantità di libri che per lo più non vendono, che svendono o che macerano, che, tuttavia, alimentano la strana economia dei libri, ma che non lasciano alcuna traccia durevole nel tessuto culturale del Paese. «Ci sono modi migliori per perdere soldi», commenta sarcastico l’editore tedesco che ha fatto della qualità delle sue scelte e dell’indipendenza dai colossi dell’editoria tedesca/americana la sua bandiera.
Continua Krüger: «Dunque la mia tesi è: il nostro business continua a esistere solo perché coloro che producono la maggior parte dei libri non leggono». La “non letteratura” permette al business editoriale di sopravvivere. Ma cosa permette alla non letteratura di sopravvivere? Qui la risposta di Krüger è assai feroce: il fatto che essa non viene letta, anzitutto da chi la produce, dagli editori. Se venisse letta, non sarebbe pubblicata. Leggere «è un lavoro estremamente duro, che fa nascere una legittima domanda sul perché si continui a fare questo sforzo». Leggere comporta fatica e richiede tempo. E l’editore sembra non avere tempo e forze sufficienti per leggere i tanti libri che pubblica. E poi, all’editore, leggendo, potrebbe forse insorgere qualche scrupolo.
Insomma, ci incalza Krüger con un certo gusto del paradosso: o si legge, o si pubblica. Gli editori non leggono. Quindi pubblicano.

Le leggi del mercato. Tralasciando questo inappellabile sillogismo, proviamo a soffermarci un passo prima: la sopravvivenza dell’editoria dipende da una quantità di libri che vendono o, per lo più, non vendono, ma che, in generale, non lasciano tracce durevoli.
Se ci chiediamo del senso del fare editoria in un mondo non letterario, non dovremmo tentare di distinguere tra la salute economica del mercato editoriale e la salute culturale delle case editrici? E cioè: la precaria salute del mercato editoriale ha una relazione con un certo appannamento della missione (se mi è lecita l’espressione altisonante).
Bernard Grasset, fondatore della omonima casa francese, ora Grasset&Fasquelle, in un testo sempre pubblicato in Panta Editoria e risalente al 1929, settanta anni prima del testo di Krüger e 85 anni circa prima della rivista Pretext, scriveva: «La logica e l’interesse effettivo per la Letteratura vorrebbero che ogni opera la cui pubblicazione non appare necessaria, non venga pubblicata». Ma, deve constatare lo stesso Grasset, questo non accade, e non può accadere e forse non deve accadere. Quella che lui chiama Letteratura, i libri necessari, «i libri che dicono qualcosa che non potrebbe essere detto altrimenti» (Krüger), vivono, necessariamente, in un mondo non letterario. Che non è il mondo dei barbari, sia chiaro. È il mondo che, stando alle sarcastiche parole di Krüger, permette al business editoriale di sopravvivere.
Ma noi editori siamo ancora in grado di distinguere il letterariamente necessario dal non necessario, ma economicamente redditizio, e quindi, in fondo, in altro senso, necessario? Personalmente, lo confesso, credo che la questione sia spinosa. C’è una scena di un noto film di Ermanno Olmi, I centochiodi, in cui il redivivo, moderno Gesù viene interrogato da un ispettore: «Lei ha mai fatto parte di organizzazioni terroristiche?», gli chiede. Risposta: «Sì, ho fatto parte del corpo insegnanti». Ecco, di me potrei dire lo stesso: «Ho fatto parte del corpo editori».
Ma dobbiamo arrenderci alla realtà dei fatti, oppure tentare un’analisi più accurata per sapere non tanto quanto si legge, ma anche cosa si legge? E se questo non è possibile sul presente, affannati come siamo, tutti (editori, giornalisti, scrittori), a tenere in piedi il business editoriale — come lo chiama Krüger — non potremmo farlo almeno sul passato?
In ogni casa editrice che abbia un catalogo e una storia, esistono libri (romanzi e saggi, traduzioni e curatele), che sono percepiti dall’editore come patrimonio culturale (e patrimonio economico) della casa editrice, o meglio come patrimonio culturale tout court.
Il venduto anno dopo anno di quei libri è probabile che corrisponda alla reale possibilità che quei libri siano effettivamente stati letti (se sin qui son stati letti, è probabile che, chi li compra — in forma cartacea o elettronica — li compri per leggerli).
Il senso dovrebbe essere: a) tentare di misurare la salute culturale del Paese e la trasmissione del patrimonio letterario, tenendo d’occhio questa sorta di canone fluido, questo “paniere”, composto da un numero di libri ampio e rappresentativo, e ovviamente modificabile; b) avere una idea più concreta sulla presenza e la formazione di lettori forti, che decreteranno quali saranno i classici di domani; c) svincolarsi dalla egemonia dei numeri del solo mercato non letterario.
La misurazione sarà inoltre utile agli editori (anche per la loro sopravvivenza), ai librai, agli studenti, alle istituzioni, al mondo della scuola, persino agli accademici (che potrebbero aiutare a selezionare i titoli del paniere).

Mediocrità necessaria. Sempre Bernard Grasset, in quel suo scritto del ’29, metteva in luce il rapporto tra letteratura, non letteratura e lettori. Tolti quei libri necessari che lui decideva, in solitudine, di pubblicare, Bernard Grasset si riservava, come abbiamo visto, la possibilità di pubblicare libri di quella che lui definisce “mediocrità accettabile”. («La maggior parte della Repubblica delle Lettere», chiosava ironico). Ma non poteva essere lui il miglior giudice della mediocrità accettabile. Così, lette le prime pagine, Grasset affidava il manoscritto al comitato di lettori della casa editrice. Il lettore della casa editrice era «l’avvocato della mediocrità accettabile». Il lettore, i lettori, la quantità di lettori (non importa qui se professionisti o meno) erano e sono il criterio non della Letteratura, del Necessario, ma del valore medio di ciò che viene pubblicato.
Bisogna, dunque, distinguere i due ambiti, laddove possibile: lavorare affinché il valore medio sia accettabile, affinché l’asticella di accettabilità non si abbassi troppo; e continuare a fare il mestiere di editore: pubblicare (o ripubblicare) libri che paiono necessari e scommettere, ciecamente, sul loro futuro.
*Direttore editoriale Bompiani