Notizie tratte da: Nicola Rizzoli # Che gusto c’è a fare l’arbitro. Il calcio senza il pallone tra i piedi # Rizzoli 2015 # a cura di Francesco Ceniti, pp. 342, 17,50 euro., 18 giugno 2015
Notizie tratte da: Nicola Rizzoli, Che gusto c’è a fare l’arbitro. Il calcio senza il pallone tra i piedi, Rizzoli 2015, a cura di Francesco Ceniti, pp
Notizie tratte da: Nicola Rizzoli, Che gusto c’è a fare l’arbitro. Il calcio senza il pallone tra i piedi, Rizzoli 2015, a cura di Francesco Ceniti, pp. 342, 17,50 euro.
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• «Quasi tutti quelli che parlano di calcio hanno giocato a calcio almeno una volta nella vita. Quasi tutti quelli che parlano di arbitri non hanno mai arbitrato una partita nella loro vita».
• «Passare un quarto d’ora sotto la doccia bollente è diventato negli ultimi sette anni il gesto più importante nella preparazione della partita: contemporaneamente mi rilasso, trovo la concentrazione e ripercorro per l’ultima volta tutti gli elementi utili a interpretare il gioco».
• «“Controlla ciò che puoi. Controlla ciò che puoi. Controlla ciò che puoi…” Un mantra ripetuto all’infinito. Penso e ripenso a tutte le cose a cui prestare attenzione. Sono veramente tantissime, e quando ho paura che possano sopraffarmi ricomincio a mormorare “controlla ciò che puoi”. È così che entro nel clima della partita: pronunciando la stessa frase di Andre Agassi, così come l’ha scritta nella sua autobiografa. Proprio come i tennisti, l’arbitro in campo è solo: non c’è nessuno che ti aiuti, dipende tutto da te, parli con te stesso. Certo, ci sono gli assistenti, quelli che tutti ancora chiamano guardalinee. Siamo una squadra, ma ognuno di noi è comunque solo nell’istante in cui deve tirar su la bandierina, fischiare, decidere. È difficile vedere tutto quello che accade durante una gara con ventidue giocatori. E allora “controlla ciò che puoi”» (Nicola Rizzoli la mattina del 13 luglio 2014, poche ore prima di arbitrare al Maracanã la finale dei Mondiali di Brasile tra Germania e Argentina).
• «La mattina della partita (la finale dei Mondiali 2014 – ndr), prima della doccia e dopo la colazione, ho chiuso il briefing pre-gara con i miei collaboratori citando una frase del libro L’arte della guerra di Sun Tzu: “Non contare sul mancato arrivo del nemico, ma fai affidamento sulla tua preparazione”. Agli Europei di due anni fa ho detto esattamente le stesse parole alla mia squadra prima della partita d’esordio e, da allora, le tengo nel cassetto per le occasioni importanti. Mi sembra sintetizzino al meglio quello che io mi aspetto da loro e da me stesso. Il nemico, ovviamente, non sono i giocatori, ma il caso, l’imprevisto, l’episodio. Bisogna farsi trovare pronti in ogni momento. (…) Poi, come sempre, a settanta minuti dall’inizio della partita metto su la mia musica collegando l’altoparlante portatile all’iPhone. Da quattro anni a questa parte “impongo” alla terna sempre la stessa playlist. Si parte soft, con One degli U2 cantata da Mary J. Blige, e si arriva forte con Titanium di David Guetta per darci la carica, passando da Viva la Vida dei Coldplay: “I used to roll the dice / Feel the fear in my enemy’s eyes…”. È il nostro nemico che deve avere paura di noi, non il contrario».
• Pochi minuti prima dell’inizio della finale, «ormai la concentrazione è quasi al cento per cento. Chiudiamo la porta dello spogliatoio, siamo di nuovo soli. Mi dirigo al mio posto e, come ogni volta, tiro fuori dalla borsa il mio barattolino di Vicks VapoRub. Mi siedo, lo porto al naso, respiro profondamente. Quel profumo balsamico mi calma, mi rilassa da morire. Mi ricorda di quando ero piccolo… “Ci siamo… pronti!” urlo, alzandomi in piedi. Ci avviciniamo tutti, ci mettiamo in cerchio e uniamo le mani, guardandoci negli occhi. “Divertitevi!” esclamo».
• «Il primo passo verso il centrocampo del Maracanã è accompagnato dal boato del pubblico; quando usciamo dal tunnel, il rumore diventa assordante. È un suono che non so a cosa paragonare e che mi porterò dentro per sempre. Finalmente posso toccare il pallone: lo prendo tra le mani, lo faccio roteare leggermente con la destra, poi me lo porto davanti alla faccia. Chiudo gli occhi, respiro profondamente e lo bacio. Anche questo è un piccolo rito che ripeto ogni volta prima dell’inizio di una partita».
• «Bologna, 1987, campo della Pescarola, quinta giornata del campionato Allievi». Durante la partita il sedicenne Nicola Rizzoli, giocatore della Lame, critica aspramente una decisione dell’arbitro, che pertanto lo ammonisce, e, per liquidarlo, gli dice: «Non sai nulla del regolamento e vuoi dare lezioni…». L’indomani, ancora ferito nell’orgoglio, ne parla con Simone, un suo compagno di classe che arbitra da un paio d’anni. «“Vieni anche tu a fare l’arbitro, scusa, vieni a provare! Così poi vediamo se ti sembra ancora facile come dici. Chiama qui” chiude il discorso Simone, scrivendomi un numero di telefono su un foglietto. E lì mi scatta una molla. Mi è sempre piaciuto imparare cose nuove: potrei provare a studiare bene il regolamento, perché no? E mi piace l’idea di mettermi alla prova. “Bebo (Alberto, uno dei suoi migliori amici e compagno di mille partite – ndr), ma sai che io ci vado davvero? Proviamo? Così la prossima volta potrò rispondere che il regolamento lo conosco perché ho fatto il corso anch’io!”. Ragiono da calciatore. A me interessa giocare e basta, non saprei citare il nome di un arbitro di Serie A nemmeno per sbaglio. I giocatori invece sì, quelli li conosco quasi tutti. Bebo mi guarda, si guarda intorno, prende tempo. Sta per dire qualcosa. Vuole essere sicuro che non lo stia prendendo in giro. Riguarda il foglietto con il numero di telefono della sezione arbitri di Bologna. “Chiamiamo?” sussurra. “Chiamiamo” rispondo. “Se non ci piace, molliamo e torniamo solo a giocare”».
• Da ragazzo «il calcio è stato la mia culla, è il mio orizzonte. Mio, dei miei migliori amici Alberto (per tutti Bebo), Andrea, Ciccio, di mio fratello Lele. Sono anni che ci ritroviamo ogni giorno al campetto sotto casa, anche con tre metri di neve, anche con il caldo che toglie il respiro. Bologna è il nostro stadio all’aperto, nel quartiere ci conoscono tutti, organizziamo partite dovunque una palla possa rotolare».
• «Sono gli anni d’oro della Samp e dei Gemelli del goal Vialli-Mancini: il primo amore è il Bologna ma la Sampdoria ha una maglia bellissima e un gioco d’attacco spettacolare. Anche Bebo e io ci sentiamo Gemelli del goal, abbiamo pure messo a punto un nostro schema segreto, lo chiamiamo “teoria Vialli”. Applicarlo è facile: basta tirare in porta tutte le volte che è possibile. Lo stesso Vialli lo aveva spiegato in un’intervista alla vigilia di un match importante: più tiri più aumenti le possibilità di segnare. Noi lo abbiamo fatto nostro: se non riusciamo a sbloccare una partita, basta un’occhiata e… “teoria Vialli!”, iniziamo a tirare da qualunque posizione».
• «Emanuele, mio fratello, tre anni più grande di me, è il mio opposto. È da sempre il mio riferimento e allo stesso tempo il “rivale” da battere soprattutto nei giochi. Non so chi dei due sia più competitivo. Battagliamo su tutto e ci prendiamo in giro per qualunque cosa, ma nei momenti importanti so di poter contare su di lui: è il primo a cui racconto di essermi iscritto al corso per arbitri. “Ma che cavolo ti passa per la testa? Che gusto c’è a fare l’arbitro? Vuoi mettere quanto è più divertente giocare?”. Lele non perde occasione per prendermi in giro ma so che mi appoggia. È un punto fermo e un supporto fondamentale, anche perché se non ci fosse lui ad accompagnarmi in macchina alle lezioni non potrei frequentare il corso. E poi in quel tragitto in macchina abbiamo tempo per stare assieme. Così è iniziata: due sere alla settimana per due mesi e mezzo, ogni volta una regola diversa. Da memorizzare, capire, imparare ad applicare. Fino all’esame conclusivo. Fino alla partita di esordio».
• «Nella mia vita, comunque, non c’è solo il calcio. Anzi, da quando ho tredici anni so che diventerò un architetto. Seguivo mio fratello praticamente ovunque, e un giorno lo avevo accompagnato da Buffetti a comprare tutto l’occorrente per le sue lezioni di educazione tecnica. Una cartoleria professionale, con le luci al neon basse e poche concessioni alla creatività, non è di certo il luogo dei sogni per la fantasia di un bambino. Eppure tra le carte da disegno, le righe, i compassi e i tecnigrafi mi sentii subito incredibilmente a mio agio. C’era un fascino eccezionale in quegli strumenti di precisione. E poi insomma, facevo solo le medie, ma a disegnare me la cavavo bene. “Emanuele…” avevo detto a mio fratello mentre tornavamo a casa. “Che c’è?”. “Sai cosa ho deciso prima?”. “No, prima quando?”. “Prima, mentre eravamo in coda alla cassa per pagare… Ho deciso che da grande farò l’architetto”. “See, se è per questo io farò l’astronauta…”». Determinato nel perseguire i suoi obiettivi, Rizzoli giungerà a laurearsi in Architettura e otterrà numerosi impieghi professionali, sforzandosi sempre di conciliare «il lavoro di architetto con quello di arbitro. D’altro canto, entrambe sono parti importanti della mia vita: l’architettura è una passione, prima ancora che una professione, che non posso e non voglio abbandonare».
• «Nei primi dieci minuti si gioca tutto. Cinque mi occorrono per capire se la partita sarà più impegnativa sul piano fisico o su quello nervoso, altri cinque per avere un quadro nitido dei giocatori. Poi valuto se ho tutte le informazioni che mi servono: cosa mi è sfuggito? Cosa è diverso da quello che mi aspettavo? Da lì in poi ci vorrà solo capacità tecnica, tenere la mente sgombra e arbitrare bene».
• «Molti associano la concentrazione al silenzio, all’assenza di qualsiasi pensiero che possa portarti lontano dal qui e ora. Per me non è così. Quasi senza accorgermene, mentre corro diagonalmente per il campo seguendo l’azione, inizio a canticchiare tra me e me una canzone che ho sentito alla radio mentre venivo al campo, Black Velvet di Pat Benatar. Mi immagino un cavallo nero e selvaggio che corre veloce come il vento, e mi accorgo che questa visione mi dà a un tempo calma e determinazione. Ecco, Black Velvet oggi è il mio modo per rimanere sul pezzo. Lo sarà per sempre. Black Velvet è il cavallo che mi porterà lontano» (una domenica mattina di inizio anni Novanta, arbitrando una partita a San Cesario).
• «“Arbitro! Ammonito!” Il capitano della squadra di casa mi guarda dritto negli occhi con il braccio alzato e in mano un cartellino giallo. Il mio cartellino giallo. Un incontro come tanti altri in D, partita tutto sommato tranquilla con cinque-seicento tifosi sugli spalti. Fino a questo momento ho arbitrato bene, salvo non accorgermi che a un certo punto, correndo, deve essermi scivolato dalla tasca il cartellino giallo, lo stesso che ora mi vedo sventolare in faccia. “Ok Nicola, qui le strade sono due: o ti incazzi e reagisci duro oppure stai al gioco e accetti l’ammonizione.” Quando hai una frazione di secondo per decidere e così tanti occhi puntati addosso è l’istinto che comanda e il mio istinto è sempre stato da calciatore più che da arbitro. Mi viene naturale e questo fa sì che per me l’autorità e il controllo in campo siano importanti tanto quanto il rapporto e il dialogo con i giocatori. “Scusi, ha ragione” sorrido e inclino il capo accentuando questa momentanea inversione dei ruoli. I giocatori scoppiano a ridere e anche in tribuna c’è chi applaude mentre io e il calciatore-arbitro ci stringiamo la mano e mi riapproprio del cartellino. Solo un attimo goliardico che scivola via appena riprendiamo la partita. Ora i ruoli sono nuovamente stabiliti e si fa sul serio. Cioè si continua a giocare».
• «“Voglio giocare a calcio, non fare l’arbitro.” Questa frase riecheggia sempre nella mia mente in qualche maniera. “Forse, alla fine, è proprio una parte del mio modo di interpretare l’arbitraggio” penso. Arbitrare vivendo il calcio; respirando il calcio per interpretare le regole nella maniera migliore».
• A Bologna, «gli archi che compongono il portico di San Luca sono seicentosessantasei, dislocati in quello che viene definito il portico più lungo e tortuoso al mondo. Si dice che non sia un caso e che il numero del Demonio e la tortuosità del portico siano simboli per rappresentare un serpente che termina ai piedi del Santuario: il portico sarebbe quindi il Diavolo sconfitto e schiacciato dalla Madonna sotto il calcagno».
• Una volta promosso tra gli arbitri della serie A, «i pensieri tornano a quel ragazzino che voleva solo giocare a calcio e conoscere un po’ meglio il regolamento. Poi le difficoltà, i momenti bui, i sacrifici, tutte le volte che mi son detto “ma chi te l’ha fatto fare…”. Mi viene in mente quel dirigente che, alla mia prima partita da arbitro, voleva farmi smettere perché pensava che fossi un incapace. Dove sarà finito, adesso? Mi viene da sorridere mentre penso a tutto questo. Sorrido ancora di più quando (…) ripenso a quella frase che ripetevo a tutti: “Io voglio giocare a calcio, non fare l’arbitro”. Chissà se da calciatore sarei arrivato così in alto… anzi lo so eccome: mai e poi mai!».
• Roberto Baggio «è un grande uomo oltre che un grande campione. Il pallone quando viene calciato da lui ha un suono diverso, non so spiegare quale sia o perché ma è diverso».
• Da bambino «passavo il pomeriggio a giocare a calcio con gli amici e, quando era ora di smettere, prendevo il mio pallone e lo portavo a casa, lo lavavo e poi ungevo il cuoio con il grasso, con grande cura. Stavo attento alle cuciture, controllavo ogni spicchio bianco e nero, studiavo con attenzione ogni nuovo graffio o ammaccatura, poi me lo mettevo davanti al naso e lo respiravo. (…) Gli anni sono passati, i materiali sono cambiati, le cuciture sono ormai diventate invisibili. Ma non importa, il rituale è rimasto».
• Durante gli Europei 2012 di Polonia e Ucraina, «il pomeriggio della semifinale Spagna-Portogallo vado in camera e apro una delle mie valigie. Dentro ci sono delle magliette che ho fatto stampare prima di partire, da dare alla mia squadra. È una cavolata, lo so, ma volevo che tutti avessimo un ricordo di questi giorni. (…) Sul retro ho fatto stampare il logo dell’Europeo con sette Puffi personalizzati, schierati come una squadra di calcio: Puffo Architetto che sono io; Puffo Brontolone per Rocchi, noto per lamentarsi di tutto e tutti; Puffo Quattrocchi per l’ingegnere precisino Stefani; Puffo Parrucchiere per Paolo, visto che quello è il suo lavoro; un Puffo che tiene in mano una bomboletta con su scritto “Product” per Renato perché è maniaco della perfezione per i suoi capelli; Puffo Giardiniere per Maggiani, il nostro assistente di riserva, che io considero ovviamente parte della squadra anche se è rimasto in Italia. Infine Grande Puffo ovviamente da dare a Collina. Davanti, invece, le magliette sono personalizzate: ognuno ha il proprio Puffo».
• Il 5 luglio 2014, in Brasile per i Mondiali, «mentre siamo tutti nella mia piccola camera e guardiamo la fine di Olanda-Costa Rica, il cellulare vibra per segnalarmi l’arrivo di un messaggio. “Complimenti per come avete arbitrato Argentina-Belgio. Firmato…” Sono incredulo, se non fosse per il fatto che Matteo Renzi da giovane è stato un arbitro penserei a uno scherzo. “Oh ragazzi, m’ha scritto Matteo Renzi!” dico agli altri, stupito. “Sì, come no… a me Obama!” commenta divertito Faverani. “Sì, anche a me Obama, ma si vede che s’è sbagliato, voleva parlare con te!” gli fa eco Stefani. “Guardate, se non ci credete: ‘Complimenti per come avete arbitrato Argentina-Belgio. Matteo Renzi’”. Ecco, adesso i miei soci ridono ancora, ma non lo fanno più per prendermi in giro. Lo fanno perché il presidente del Consiglio s’è accorto di noi, ha seguito la nostra partita e si è complimentato. Vero che Renzi è stato un arbitro, ma il fatto che abbia voluto scrivermi mi fa davvero molto piacere. Memorizzo il suo numero sul cellulare, e mi fa un certo effetto. Scrivo solo “Matteo R.”».
• «“La vittoria si ottiene quando si è preparati a ogni imprevisto” scrive Sun Tzu nell’Arte della Guerra. “Se conosci il nemico e conosci te stesso, nemmeno in cento battaglie ti troverai in pericolo. Se non conosci il nemico ma conosci te stesso, le tue possibilità di vittoria sono uguali a quelle di sconfitta. Se non conosci né il nemico né te stesso, ogni battaglia significherà per te sconfitta certa”. Nel nostro caso “il nemico” non sono le squadre né i giocatori, ma le situazioni di gioco e le varie circostanze che si presenteranno durante la partita. Una partita di calcio per un arbitro è come un’equazione a tantissime incognite: più incognite riusciamo a conoscere a priori attraverso lo studio e la preparazione, più l’equazione sarà semplice da risolvere, riducendo al minimo le situazioni che ci possono cogliere di sorpresa. “La vittoria”, ribadisce dice Sun Tzu, “si ottiene quando si è preparati a ogni imprevisto”».
• La sera prima di arbitrare la finale dei Mondiali 2014, «dopo cena, saluto tutti e vado in camera. Preparo la borsa con grande cura, ripetendo mentalmente l’elenco delle cose da portare, poi mi stendo sul letto e lascio rilassare gli occhi e la mente. Quindi, poco prima di dormire, proprio come ho fatto un anno fa a Wembley per la finale di Champions League con quello della Uefa, mi metto seduto sul letto e, con ago e filo, cucio lo stemma della Fifa sulla mia divisa rossa. Amo farlo personalmente, con le mie mani, come mi ha insegnato mia nonna tanti anni fa. È l’ultimo rito, il più importante, quello che più di tutti riesce a calmarmi. Ripongo la divisa nella borsa, do un’ultima occhiata fuori dalla finestra, mi metto a letto. E, dopo aver spento la luce, sussurro a me stesso: “Buonanotte”».
• Conclusa la finale dei Mondiali 2014, dopo aver ricevuto una medaglia dal presidente della Fifa Blatter «mi lascio alle spalle i festeggiamenti di chi sta salendo le scale per andare a sollevare la Coppa del Mondo e comincio a camminare. Riesco a sentirmi finalmente solo con le mie emozioni. Mi trovo al centro, in mezzo ad almeno settantamila persone che urlano o piangono. Ora posso ammirare la cornice del Maracanã. Che spettacolo. Solo adesso mi accorgo di quanto sia grande lo stadio e di quante persone ci siano. Percorro tutte le tribune con lo sguardo, piano piano, girando su me stesso sul dischetto del centrocampo. Trecentosessanta gradi in cui mi sembra di vedere ogni singola persona, chi esulta e chi si dispera. Trecentosessanta gradi di emozione pura che si sprigiona in un colpo solo. I trecentosessanta gradi più belli della mia carriera. Mi fermo con lo sguardo dove sono posizionati i nostri parenti, gli amici e i colleghi venuti a tifare per noi, sventolano le braccia in aria per salutarmi. Riesco a vedere il sorriso di Chicca che mi guarda negli occhi. E in quel momento tutte le emozioni e l’adrenalina si sciolgono in una lacrima di gioia che mi percorre la guancia mentre mordo la bottiglietta d’acqua che stringo in mano. Ecco che gusto c’è a fare l’arbitro».
• «Milan-Brescia, Coppa Italia, 29 novembre 2005. Arbitrare i grandi giocatori, quelli che sono campioni non solo in campo ma anche fuori, è sempre bellissimo per noi arbitri, perché ti rendono la vita molto più semplice. Non solo: a volte, senza neanche accorgersene, ti danno delle lezioni indimenticabili. A me è capitato con Billy Costacurta in una partita del Milan a San Siro, una delle mie prime gare ad alti livelli, in cui magari peccavo ancora un po’ di inesperienza. Nell’azione in questione la palla arriva dall’alto, Costacurta e l’attaccante avversario saltano per colpirla e si spingono un po’. Per me è fallo del difensore. Un paio di minuti dopo, stesso duello, stessa dinamica. Per me non cambia nulla: ti appoggi all’avversario? E io fischio. Stavolta però Costacurta mi si avvicina un po’ seccato e aprendo le braccia esclama: “Ma non sono falli, questi qua!”. “Come no? Certo che lo sono!” replico, sicuro. “Ma no, invece! Se fai così va a finire che mi fischi sessanta falli a partita…”. Sul momento non ho dato peso alla sua affermazione, poi riflettendoci ho realizzato che non basta conoscere il regolamento: per stare in campo bisogna capirne di calcio, respirare il calcio. E da quel giorno ho cominciato a respirare il calcio vero».
• «Atalanta-Inter, Serie A, 18 gennaio 2009. Punizione per l’Atalanta a pochi metri dal limite dell’area, Ibra si mette in barriera. È il più alto, per cui si posiziona per primo. Conto i nove passi dal pallone e segnalo il punto in cui la barriera si deve mettere a distanza: non essendoci ancora lo spray, mi posizionavo qualche passo dietro ai giocatori e usavo il braccio come una specie riferimento. “Toccate il braccio” dico, per farli arretrare ancora
di mezzo metro. Loro eseguono, ma Ibrahimović non si sposta. “Ancora un passo” gli ripeto. Allora si muove, ma stizzito e decisamente con troppo slancio, finendo sul mio piede. Ora, può anche darsi che non l’abbia fatto apposta, ma ne dubito: un calciatore, per di più di quella caratura, sa sempre dove mette i piedi. Fosse stato un episodio plateale avrei potuto anche estrarre il rosso, ma in questo caso nessuno ha visto cosa è successo, per cui un’espulsione sarebbe stupida e controproducente. Così ricambio con la stessa moneta, affibbiandogli una gomitata decisamente “involontaria” sul fianco per spostarlo. Ibra, guardandomi con aria di sufficienza, incassa senza fiatare. Anzi, abbozza un sorriso. Ulteriore conferma, se ce ne fosse stato bisogno, che il suo pestone non era stato poi così innocente… 1-1, palla al centro».
• «Fiorentina-Milan, Serie A, 31 maggio 2009. Ci sono sfide in cui esserci è un onore perché restano per sempre nella storia del calcio. Io ho avuto la fortuna di farne alcune e tra queste figura senza dubbio l’ultima partita di Paolo Maldini. Dopo venticinque anni al Milan, il capitano dei rossoneri lascia definitivamente il campo nell’ultima giornata della stagione 2008/ 2009, a Firenze. A una manciata di secondi dal novantesimo, Gattuso viene da me e mi chiede: “Rizzo, non fischiare la fine, vogliamo fare uscire Maldini”. Capisco bene la volontà dei giocatori e la condivido, per cui aspetto senza esitare. Purtroppo però la palla non si decide a uscire dal campo. Io aspetto un po’, ma non posso fare più di tanto… Passano venti secondi oltre il recupero, poi scambio un’occhiata con Donadel e lui calcia il pallone fuori. Tutti mi guardano perché non capiscono, poi Maldini fa una cosa che mi spiazza e che non dimenticherò mai: appena fischio, viene ad abbracciarmi. “Grazie” mi dice. Rimango senza parole, è un gesto che non era tenuto a fare, ma degno di un vero campione. Mentre esce dal campo tutti applaudono un grande capitano. Appena è fuori dal terreno di gioco, fischio la fine della partita e contestualmente la fine della sua carriera da calciatore».