Jeff Sharlet, GQ 7/2015, 18 giugno 2015
SALVIAMO LA SPECIE MASCHIO
«Che cos’è la uomosfera?» chiedo a Paul Elam una notte, verso le tre. Non è una domanda nozionistica, ma esistenziale. So già che il termine uomosfera si riferisce a una rete su Internet, appena nata ma già vasta e in costante espansione come l’universo, in cui ogni stella che brilla nel firmamento è dedicata, naturalmente, agli uomini. Gli uomini e i loro problemi. In genere con le donne. Certe galassie della uomosfera sono composte da sedicenti “artisti del rimorchio”, che vogliono aiutare i meno dotati a portarsi a letto le donne con qualche trucchetto; altri sistemi solari si occupano seriamente di affidamento dei figli e della sedazione dei ragazzi troppo vivaci.
Come sito di punta per la politica del movimento (quasi nove milioni di visite), “A Voice for Men” di Elam funge più o meno da centro, da intelligenza e da super-Io per quell’Es libidinoso e furente che è la uomosfera dei blog. La mia vera domanda è: che significa tutto questo?
Elam ha appena concluso una conferenza. «Roba da non crederci», commenta: è la prima volta che “A Voice For Men” si fa carne e dimora tra noi. Elam ripete spesso: «Non si può combattere l’assemblea delle tette», ma è esattamente quel che sta facendo. Vuole rovinarle. E il suo slogan: “Roviniamole”. Loro sono le femministe. Due metri per centotrenta chili, con la barba di John Brown e la voce tonante di James Earl Jones, Elam (il cui cognome, guarda caso, è il contrario di male, maschio) vuole essere un provocatore.
Una volta, in risposta a una femminista che lo criticava, ha scritto: «L’idea di rovinarvi mi fa venire un’erezione». Ma quella è tutta scena, spiega. Mi ricorda che un tempo faceva assistenza psicologica. Quella che pratica è in realtà una terapia. Vuole che io capisca. Per cui mi disegna una mappa della uomosfera, sin dalle origini: le sue radici nel movimento di liberazione degli uomini degli anni Settanta e Ottanta (affiliato al più vasto movimento delle donne) e in quello a tinte New Age degli anni Novanta; lo sviluppo nell’epoca di Internet, quando Elam ha iniziato a pubblicare firmandosi Lester Burnham (il personaggio che affronta la crisi di mezza età in American Beauty, interpretato da Kevin Spacey), e la crescita esplosiva dopo la fondazione di “A Voice for Men” nel 2008.
È una mappa talmente complessa che neppure Elam sa tracciarla con chiarezza. Mi mostra il risultato finale. La somiglianza è lampante: «Un pene con i testicoli», dico. «Già», risponde lui con una risatina, «mi sa di sì». I temi trattati alla prima conferenza internazionale di “A Voice for Men” sono vari quanto la uomosfera stessa: diritti dei padri, suicidio, circoncisione (intesa come mutilazione genitale), nonché le false accuse di stupro, gli uomini vittima di stupro e le mogli infedeli, oltre ai giornalisti traditori che distorcono le loro dichiarazioni.
Siamo nella cittadina di St. Clair Shores, presso un’associazione di veterani. Sul prato ci sono pezzi di artiglieria e un cartello scolorito con la scritta “Avviso”. A chi e di cosa, non si sa esattamente. Gli uomini in fila sono tesi per la “sicurezza”. Ripetono: «È meglio che le femministe girino al largo». È la loro preoccupazione più grande.
Questi uomini sono immuni alle astuzie femminili. Hanno preso la pillola rossa, come amano dire. Il momento-pillola rossa “è il giorno in cui decidi che tutto è cambiato”. È quello che il movimento chiama l’esperienza di rinascita in cui scopri il controllo esercitato dalle donne sul mondo moderno, come in Matrix. Per alcuni il momento-pillola rossa è stata un’accusa di molestie sessuali; per altri il carcere dopo una battaglia legale con l’ex moglie.
Per Dan Moore, nome da attivista Factory, la pillola rossa è stata una rivelazione graduale. Prima la moglie lo ha tradito. Poi glielo ha fatto sapere: «Mi ha riso in faccia». È finito raggomitolato in posizione fetale sul pavimento, con lei che lo derideva. Racconta che lei aveva in mano un coltello da cucina (lei nega tutto).
Elam ha elaborato la ragion d’essere del movimento in un saggio intitolato Quando è giusto prendere a pugni la propria moglie?. Elam è bianco, ma si identifica con Malcolm X; crede di dover sconvolgere la società per farsi sentire. Sostiene che parlare di “ganci destri” e di donne che “supplicano” di essere stuprate è la sua versione del “con ogni mezzo necessario” di Malcolm X. Ha proposto che ottobre diventi “il mese delle botte alle stronze violente”, in cui gli uomini dovrebbero prendere le donne che li maltrattano «per i capelli e sbattergli la faccia contro il muro finché non gli sanguina il naso, così gli passa la voglia di picchiare qualcuno solo perché sanno che non reagirà».
Elam definisce satirico questo linguaggio. Ma poi, una sera, rivendica ogni parola che ha scritto. «È una storia tipo Davide e Golia», spiega. Lui è Davide, che affronta da solo il Golia del Femminino e proprio come nel racconto biblico, non si tratta tanto di uccidere Golia quanto di ridare speranza al suo popolo.
Elam mi indirizza all’uomo che gli ha dato la sua pillola rossa, sotto forma di libro: Il mito del potere maschile, del 1993. «Da tempo abbiamo riconosciuto la schiavitù dei neri», scrive il dottor Warren Farrell. «Dobbiamo ancora riconoscere la schiavitù dei maschi». Hanno le prove. Gli uomini, soprattutto poveri e delle classi lavoratrici, sono carne da cannone all’estero e forza lavoro sacrificabile in patria, imprigionati sotto un soffitto di vetro con lavori che nessuno vuole fare davvero – braccianti, muratori, spazzini – e si infortunano molto più spesso delle donne. Vanno anche in prigione più spesso e vengono picchiati dalle donne tanto quanto queste vengono picchiate dagli uomini (anche se con esiti meno cruenti). E per loro non esiste quasi rifugio, se non negli ospizi per senzatetto.
Il paradosso del Movimento per i diritti degli uomini è che la sua critica, la sua enfasi sui vincoli di genere, è essenzialmente femminista. Nientemeno che l’arcifemminista Andrea Dworkin definiva gli uomini “superflui” nel suo libro Le donne di destra del 1983. «Il femminismo», scriveva, «propone uno standard assoluto di dignità umana, che non si può dividere a seconda del sesso».
Al secondo piano c’è una sala riunioni perlopiù vuota, in fondo alla quale ci sono le donne del movimento. Non fidanzate, né mogli. Sono i Tassi del Miele, nome preso da un video virale in cui un tasso in cerca di preda sfida prima uno sciame di api e poi un cobra. «Il tasso del miele se ne sbatte», proclama una voce fuori campo. È questo lo slogan dei Tassi, che se ne sbattono delle opinioni delle altre donne e dei loro amici maschi smidollati.
La capobranco è Alison Tieman, nom de guerre Typhon Blue. Ha trentasette anni, è minuta, saggia e pungente. È sposata con un uomo che, a sentire lei, una volta ha subito un tentativo di stupro da un gruppo di ragazze sedicenni. Lui aveva ventidue anni, era carino, e loro volevano impedirgli di andarsene da una festa. «Lui è proprio dovuto scappare», racconta. «E loro lo hanno ferito a sangue».
Mi verrebbe da dire che ho letto questa storia su Penthouse Forum quando avevo tredici anni. Typhon Blue vuole che io sappia che non è divertente. «Se una donna punta una pistola alla testa di un uomo e gli dice “Non prendo la pillola, e ho la gonorrea, e adesso ti scopo”, quello non è stupro? Oppure “Voglio che mi paghi gli alimenti”, con la pistola puntata: non è stupro?». Sì, rispondo. Lo sarebbe. Se accadesse. Succede, mi dicono. Succede anche oggi. E se io non ne so nulla, è perché le femministe non vogliono si sappia.
I Tassi tirano fuori cifre, storie, dati. Kristal Garcia, un’ex professionista del sesso e fondatrice di un gruppo di sostegno agli uomini, mi racconta che «in Africa ci sono bande di stupratrici» che rapiscono gli uomini e «usano l’attrito» per provocare erezioni involontarie; in Nigeria, aggiunge Kenney, un uomo è stato stuprato a morte dalle sei mogli; «per non parlare», rincara Edwards, «di quella donna africana che ha l’AIDS e fa sesso con tutti gli uomini che vuole per infettarli». Dicono che mi manderanno degli studi. Scientifici. Un intero barattolo di pillole rosse.
Scrivo il mio indirizzo email con mano tremante. Faccio una pausa e il mio cellulare vibra: è un sms della mia amica Blair, che mi aspetta di sotto. Blair vive nel Wisconsin e ha deciso divenire insieme al fidanzato Quince quando ha saputo che sarei andato a una conferenza fuori Detroit. Blair e Quince scrivono di questioni di genere; l’idea li ha incuriositi. Lei ha ventisei anni, gli occhi azzurri e le guance rosee, ed è una delle poche donne presenti. «Il tizio con la maglietta non vede l’ora di parlarti», dice il messaggio. So di quale maglietta parla; è bianca con una scritta rossa: “Robert Maynard libero”.
L’aspirante liberatore di questo tale Robert Maynard si chiama Albert Calabrese. Mi trova in mezzo ai Tassi del Miele, ma si tiene a distanza. Sa chi è Typhon Blue, ha guardato i video da lei pubblicati in rete, nei quali parla degli abusi sessuali compiuti dalle donne sui ragazzi. Calabrese non condivide esattamente i suoi timori. Il suo problema sono le ragazze. Racconta che il suo amico Robert Maynard è in prigione a causa di una ragazza. Lei aveva quattordici anni. «Lui ha ricevuto una foto di lei nuda», sgranando gli occhi per lo sdegno sulla parola “ricevuto”.
Calabrese e Maynard erano iscritti all’Università dell’Arkansas. Studiavano insieme i buchi neri. Parlavano di problemi maschili. Ma Calabrese non sapeva che l’amico fosse nei guai, finché un giorno Maynard non gli ha detto che lasciava gli studi. Andava in prigione. Per dieci anni. E non aveva neppure sfiorato la ragazza, stando a Calabrese. Non che non volesse farci qualcosa, dice. Secondo Calabrese, Maynard sosterrebbe che a quattordici anni una ragazza è sessualmente matura, che per lui l’età del consenso dovrebbe essere l’età media del menarca: 12,3. «Gli piacciono le donne», spiega Calabrese. «Non è che smettono di piacergli se sono più giovani». E nemmeno a lui dispiacciono le ragazzine preadolescenti.
C’è un punto, però, su cui Calabrese è in disaccordo con Maynard. Secondo lui, 12.3 anni sono un’età del consenso troppo alta. Lui farebbe 12, cifra tonda: «Preferisco il rischio di una dodicenne che ha rapporti sessuali al rischio di rovinare la vita a un uomo».
Non nega che esistano casi di abusi reali. Ma ha il sospetto che, per le ragazze, gli uomini adulti siano compagni di letto migliori dei loro coetanei. «L’adolescente è più interessato al sesso. Mentre l’adulto alla sostanza», dice. «O anche a un rapporto fra mentore e pupilla». Gli adolescenti, sostiene, fanno gli spacconi. Lui e il suo amico no. «È facile trovarmi su Google». Infatti eccolo: Albert J. Calabrese Jr., già supplente scolastico ad Akron, nell’Ohio, arrestato per aver avuto rapporti sessuali con una minorenne. «La mia non era una studentessa», dichiara. «Era stata lei a chiedermi di uscire». Lui pensava di cavarsela raccontando alla polizia che lei era più esperta di lui. Non sapeva di avere il diritto a restare in silenzio.
Non ha mai guardato film polizieschi: «Per me sono emotivamente frustranti». Dice che non bisogna godere delle altrui sofferenze. Vorrebbe non provare quel che prova, ma far parte del mondo. Oggi invece ne è escluso. Colpevole di reati sessuali. Non trova lavoro. Non vive dove gli pare. Non può dire quel che pensa davvero. Non può, o così crede, essere pienamente umano.
L’ultima sera prosegue fra discussioni su stupri e assalti ai genitali maschili, sullo strazio delle false accuse e il narcisismo delle ragazze. Factory ha due figlie e racconta che, come tutte le giovani donne, fanno a gara a dichiararsi vittime di stupro. È una questione di status, dice. Quando, una sera, una delle due, rincasando, ha detto di essere stata stuprata, lui le ha risposto: «Mi stai prendendo per il culo?». Imita la sua voce in falsetto: «Ah, mi hanno violentata!». Ride. C’è un attimo di silenzio. Che sia troppo? «Le ho detto che se sporgeva denuncia, la disconoscevo». Factory vuole bene alle figlie. Avrebbe reagito in modo diverso se si fosse trattato di un’accusa legittima (o quella che lui considera tale), ma «se non c’è un video o un referto medico, o un sacco di lividi, io me ne sbatto».
Quando rientriamo nella stanza, Elam e Factory sono su di giri, fanno gli stupidi, prendono in giro Blair. «La chiusa del tuo articolo», mi dice Elam, «dovrebbe essere: “A quel punto ci viene fame, e Paul dice: stronza, vammi a prendere un panino”». Scherza perché in questo momento il suo amore prevede anche le donne con il senso dell’umorismo: e poi non chiederebbe mai a una stronza di fargli un panino. Ma sul serio, dice. Ed è allora che Elam mi disegna un diagramma. Il pene con i testicoli. Non voleva disegnare quello, ma gli esce così. È un segno. Sorride. Sorridono tutti.
Ormai siamo su, nella uomosfera, la grande anima fallica collettiva, le battute sugli stupri non cadono più come bombe, sono comuni come la pioggia. Ce l’abbiamo fatta: è il mondo sognato da Elam, dove gli uomini sono uomini, anche se pieni di ferite.