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 2015  giugno 18 Giovedì calendario

ORFINI IL TRASFORMISTA

Renzi è l’ultimo giapponese di una linea che in tutto il mondo è stata abbandonata. E da questo punto di vista Matteo non è un rinnovatore, si pone anzi in continuità con molti di quelli che vuole rottamare» (6 settembre 2012). «Io non credo che le ricette che Renzi ha presentato nel suo discorso siano quelle giuste per il Paese, mi sembrano ricette vecchie» (14 settembre 2012). «Renzi e io siamo geograficamente ai poli opposti del Pd» (16 aprile 2013).
Chi parla? Rosy Bindi? Massimo D’Alema? Fuochino. L’autore di queste graffianti dichiarazioni sul premier è uno che assomiglia al Conte Max fin dal tono di voce. Anche lui si chiama Matteo come Renzi (e Salvini). È Matteo Orfini, presidente del Partito democratico, l’uomo che l’11 giugno ha annunciato che «il Pd voterà inevitabilmente sì all’arresto di Antonio Azzollini», senatore alleato del Ncd coinvolto a Trani in un’inchiesta sul crac delle case di cura Divina Provvidenza. Costringendo il Pd, e Renzi in persona, alla smentita e a una brusca correzione di rotta: «Il Pd resta garantista».
Studi in archeologia (non si è mai capito se completati o meno: i renziani lo accusarono di non essersi mai laureato), funzionario di partito, già responsabile Cultura e informazione con Pier Luigi Bersani segretario,
Ma c’è stato un momento in cui il deputato romano attaccava entrambi, in un colpo solo: «Il ghostwriter di Renzi è il D’Alema di vent’anni fa. A occhio il conservatore è lui. Con l’aggravante che conserva un modello già fallito». Era la fine del 2013 e Orfini, in quel momento Giovane turco con Stefano Fassina, appoggiava al congresso Gianni Cuperlo. Con D’Alema il rapporto s’era già incrinato. Al punto che l’ex presidente del Consiglio sfotteva la sinistra del Pd guidata dall’ex delfino: «Vedo che finalmente ci sono giovani turchi che fanno qualcosa d’interessante. Peccato siano a Istanbul» (D’Alema si riferiva agli scontri di allora fra polizia e manifestanti in Turchia). Orfini ha poi piroettato verso Renzi fino a diventare il volto pubblico del Pd nella gestione del partito romano, dopo lo scoppio dell’inchiesta «Mafia Capitale». È lui a organizzare l’assemblea dopo i primi arresti ed è lui che va in tv a difendere il Pd. È lui che nomina i sub-commissari a Roma: Gennaro Migliore a Tor Bella Monaca, Antonio Funiciello ai Parioli, Andrea Romano al XIII Municipio e la fiorentina Elisa Simoni al Primo Municipio, quello del centro storico. Non sono mancati gli scivoloni. Fu Orfini, insieme all’ex presidente del X Municipio di Ostia, Andrea Tassone, a nominare il senatore Stefano Esposito commissario del Pd ostiense. Tassone è stato poi arrestato, e con lui altri esponenti del Pd (vedere schema a pag. 70). Laddove si dimostra che il sindaco Ignazio Marino sarà pure il peggior sindaco di Roma, ma nel Pd che gli chiedeva di andarsene perché «non conosce la città» (Luigi Zanda), evidentemente erano e sono in diversi a conoscerla fin troppo bene.
Orfini, che adesso vive al Tufello con la compagna, sulle periferie romane ha costruito il suo «storytelling». Lui si schermisce: «Porto un giubbino sportivo verde, collezione autunno-inverno di Decathlon... Ho speso 39 euro. Sa, guardo le offerte». In realtà viene da Prati, nello specifico da piazza Mazzini, tempio del dalemismo, che certo non è un quartiere per pauperisti. Lì ha mosso politicamente i primi passi.
L’altro pezzo di narrazione orfiniano è il calcio, sia giocato (Orfini è milanista) che videogiocato, come racconta la foto di lui e Renzi alla Playstation durante lo spoglio del primo turno delle regionali del 31 maggio. Avversario a Roma di Luca Zingaretti e un tempo di Goffredo Bettini (ma ora pare che i rapporti siano meno freddi), aveva tra i suoi fedelissimi Tommaso Giuntella, già membro dello staff di Bersani alle primarie 2012. Raccontano che quando il giovane Giuntella fu convocato con Roberto Speranza e Alessandra Moretti da Bersani per far parte del suo staff, l’escluso Orfini venne a saperlo solo a cose fatte e non la prese benissimo. Restano irrecuperabili i rapporti con D’Alema: «Se ci sono dei difetti nell’azione di governo, e ce ne sono, stanno proprio nella fatica di smaltire fino in fondo le scorie della subalternità politica e culturale degli ultimi 20 anni. Difficile che possano riuscire a correggere quegli errori i protagonisti di quella stagione di subalternità, che peraltro continuano a considerarla l’era della meglio classe dirigente». Baci, abbracci e sputi, canta De Gregori.