Valeria Parrella, GQ 7/2015, 18 giugno 2015
LE VITE DEGLI ALTRI
[Michele Riondino]
«Devo restare davvero vedovo», mi spiega guardando fisso davanti a sé come se, invece, volesse mettere a fuoco nel senso contrario: dentro. Visto che lo dice in una bella mattina assolata nel cuore della Napoli greco-romana, con i piedi poggiati su una fioriera del bar in attesa di una spremuta, la frase ha un effetto straniante.
Michele Riondino è masochista, me lo dirà più di una volta nel corso della chiacchierata, e il corpo è il segno su cui deve passare tutto, in primis il suo lavoro. Così si fa “straziare” per il suo ruolo di Orfeo, vedovo di Euridice, cantore disperato che scenderà all’Ade per riportare in vita l’amata: il suo prossimo spettacolo che debutta per il Napoli Teatro Festival il 23 giugno, al Teatro Bellini.
Per fortuna, nella realtà Riondino vedovo ci resta poco. Appena può si butta in treno e corre a Roma, al Pigneto, a ricostruire il nucleo famigliare che si è creato assieme alla compagna Eva Nestori, make-up artist ciociara, e alla piccola Frida di 15 mesi. «Il Pigneto ha ancora una dimensione umana, da piccolo quartiere, e questa casa che per me è solo una delle case... L’altro giorno vedevo Frida muovere i primi passi, pensavo che per lei è “La casa’’».
Mentre ne parla si illumina, ancora guarda lontano, sfoca i passanti, cerca in sé e trova: «È quello che ho sempre voluto, sempre: io sognavo di fare il padre», dice questo papà di 36 anni, di cui la metà esatta trascorsi a recitare, prima all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico e poi, con una folgorante carriera, in teatro, cinema e televisione. «L’idea di essere padre mi piaceva molto. Quando è nata Frida son dovuto partire per uno spettacolo a Catania ma dopo 10 giorni che ero lì sono tornato rocambolescamente a prenderle, lei e la madre, per continuare la tournée insieme. Così si è realizzato il sogno, quello che volevo: una vita da girovaghi per noi».
La volontà spinta fino allo stremo, fino al masochismo, e una natura prepotentemente mediterranea sono i primi, indubbi caratteri che mi appaiono mentre parliamo. La costruzione della famiglia è solo uno dei momenti che lo rivelano come uomo profondamente legato al Sud, ma ce ne sono altri: la sua militanza verso la città d’origine, la gloriosa e devastata Taranto. Una città che era il più spettacolare mercato di pesce d’Italia e che oggi è devastata dall’inquinamento: «Ogni volta che torno trovo un nuovo palazzo color rosa confetto. E il rosa dovuto alle esalazioni di carbon coke. Questo ti dà la misura del dramma che si continua a vivere».
Michele ci torna spesso: prima di tutto perché, come Odisseo, si torna sempre da dove si è partiti. «Considerare certi luoghi di Taranto mi smuove emozioni. Ma il tempo che è passato ha fatto sì che la città si sia trasformata e che io mi sia trasformato. Chi è rimasto è gente nuova che non conosco. Io Taranto la odiavo con la stessa ossessione con cui la amano nuove persone». E mi racconta dei cortili assolati di casa dei nonni, dove si scendeva a giocare, e che erano tutt’uno con la casa pristina: ancora oggi i suoi genitori vivono lì, anche se il ruolo di nonni li ha trasformati in pendolari da e per la capitale.
E poi Michele torna a Taranto per organizzare il nuovo, vero Primo Maggio che questa nazione onora: con il Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti, dal 2012 lavora come direttore artistico di un evento che ha ripreso il senso originario e che quest’anno ha portato in piazza duecentomila persone. Del resto lui è nato in un quartiere operaio, e questa cosa è evidente anche mentre mi parla: è un valore aggiunto che non gli si stacca da dosso.
Michele è di una bellezza quasi infantile: ricciolino, poca barba. La sera prima dell’intervista lo vedo alla Feltrinelli, con un total look color vinaccia, una tuta con cappuccio. La responsabile eventi della libreria lo individua, poi viene a chiedermi: «Ma è Riondino? Perché mi sembrava troppo casual per essere un divo». Infatti Michele non vive da divo, anche se ha avuto quasi sette milioni di telespettatori con il bel film per la tv di Ricky Tognazzi su Pietro Mennea, anche se da anni le persone lo fermano per strada, giovane Montalbano. È un giovane uomo anche in questa mattina di sole, con gli occhialetti rotondi, il copione sotto braccio e il cellulare silenziato. Serio e attento come ormai neppure più gli adulti sanno essere, disinvolto come uno che di interviste ne ha fatte tante, spontaneo come un ragazzo.
Mi indica un cane «con le scarpe» che passa con il suo buffo padrone. Al bar si alza, va a pagare. Lo guardo e mi chiedo dov’è la sua bellezza. Dove si cristallizza. Allora la cerco con lui: quello che una volta era lo stigma delle attrici, cioè l’esser belle che significava non esser brave, oggi ricade anche sugli uomini? «Per me lo stigma vero è la televisione. Prima di far tv riuscivo a “farmi rispettare” come attore. Ora che ho popolarità pare che devo dimostrare tutto daccapo: che sono bravo». Ma le persone ti amano. «Non dico le persone, infatti, bensì i produttori, la critica, anche i colleghi. Quando mi è piaciuto uno spettacolo e vado a salutarli nei camerini, registro nei loro occhi un atteggiamento di superbia».
Quindi il teatro è la “riabilitazione”? «Il teatro mi fa vedere quello che sono diventato rispetto a quello che ero. Nel senso che sono nato come attore teatrale, avevo e ho ancora una compagnia; poi il cinema e la televisione – che richiedono tutto un altro tipo di lavoro – mi staccano dal teatro. E quando ci ritorno allora vedo che niente è andato perduto delle nuove esperienze, mi rimetto in gioco e ho una cartina di tornasole su cosa sono diventato».
Mi racconta di non essere uno stanislavskijano, cioè di non dover pescare da se stesso per interpretare un personaggio, bensì di rubare molto dagli altri. Rubare la vita agli altri è anche il titolo della sua precocissima autobiografia, pubblicata da Fandango nel 2013. E da come si guarda intorno, da come osserva le persone che passano per strada mentre chiacchieriamo, è evidente che fa tesoro di ciò che vede: «Pescare dal mio repertorio è più complesso che pescare da quello di altri: se copio da qualcuno è come se vedessi già il personaggio dal punto di vista dello spettatore, il resto lo fa il pubblico che interpreta, recupera emozioni e ci mette molto di suo. E poi... è come se trovassi più interessanti le vite degli altri». La tua non è male, però: hai recitato con Bellocchio in Bella addormentata, con Martone in Noi credevamo e Il giovane favoloso, oggi sei su una copertina importante... «Si, per carità, lo so: dico che il mio masochismo sta pure nel contrastare il mio stare in scena con quello di qualcun altro che pesco nella vita reale».
Hai detto di volerti rapare a zero, subito dopo il servizio fotografico per GQ. È masochismo pure questo? «Mi va di cambiare completamente espressione. Non farmi notare oppure, di contro, farmi notare perché mi si riconosce. Accetto di essere malleato: non sono affatto un istrione ed è per questo che mi piace il teatro di Emma Dante o di Davide Iodice. Mi piace la destrutturazione del testo e del corpo dell’attore. Non mi va di offrirmi per quello che sono ma per quello che potrei diventare. Iodice per esempio lavora sulla gamma di possibilità che si possono dare. E lavora a metterti in difficoltà».
Ma la vita reale non ti mette in difficoltà? Chessò, conciliare carriera e paternità? Potrebbe essere questa la nuova deriva uomo-donna? Tua moglie lavora tanto... «Prima che nascesse Frida, Eva aveva un momento di stasi nel lavoro e io la spingevo a darci dentro; poi, magicamente, appena Frida è nata ha lavorato di più e io in qualche modo sono stato più “fermo”. All’inizio ho avuto bisogno di un cartellone scritto da Eva con cosa Frida dovesse mangiare, poi... la verità?». Solo la verità, Riondino. «Dopo un mese non vedevo l’ora di tornare a lavorare». Ah, finalmente torna l’uomo meridionale secondo stereotipo. Com’è il rapporto con tua madre, visto che ci siamo? «Eva mi prende sempre in giro su questo, dice che io al telefono con la mamma “faccio limetta”». Cioè? «Stiamo ore e ore a dirci cose apparentemente senza valore, ma che poi sono tutto il valore affettivo che serve...».
Mentre andiamo per le strade vive e sconnesse di Napoli lo sottopongo a un questionario “proustiano”:
Diventare bravo come... «Gian Maria Volontè».
Diventare buono come... «Lotto contro l’idea di diventare più buono: lavoro per essere più stronzo».
Imparare a... «A cucinare. Aspetta, aspetta... A suonare». No, vale la prima, cucinare.
Perdonare cosa? «Me stesso».
Non perdonare mai cosa? «Il disinteresse verso le cose che ci riguardano».
Alla fine lo accompagno alle prove di Euridice e Orfeo, mi siedo buona buona in sala mentre va a cambiarsi. Quando torna, richiamato dal regista, è già altro da sé, già diverso, è già Orfeo. Lì sulle tavole del palco non ha più nulla di estroverso, solare, schietto: quell’energia che tutti gli riconoscono è convogliata con pazienza nel controllo della voce, del senso che la voce deve portare. Attacca le battute dal mezzo e tutto vi precipita dentro: la piazza di poc’anzi, la spremuta appena bevuta, il successo del primo maggio, il cortile dell’infanzia nutrono Michele/Orfeo, scendono con lui negli Inferi: «Ti cerco nella stanza, contro il vetro dalle cui lastre vedemmo assieme la città, fuori guardare fuori, e noi mano mia sulla tua mano...».
Allora finalmente capisco dov’è la vera bellezza di Riondino: sa in quale luogo del mondo si trova, in quale momento della sua esistenza: e ci sa stare.