Paola Pellai, Style, il Giornale 17/6/2015, 17 giugno 2015
PROFESSORE MANCATO
[Rocco Papaleo]
Ho “abitato” con Rocco Papaleo per un paio d’ore in una giornata di sole. Ho condiviso non solo il suo monolocale di 20mq all’ultimo piano di un palazzo popolare tra Re di Roma e Ponte Lungo, ma anche la sua anima. Rocco ha la faccia da attore, l’intelligenza del regista, la sensibilità del musicista. Papaleo è tutto questo, ma è soprattutto un divenire che cerca di migliorare ogni giorno. Come uomo e come papà. Tutto questo mi era ignoto fino a quando non ho suonato il suo campanello, con nome e cognome ben in vista. Fino ad allora per me Papaleo era sopratutto l’attore brillante di tanti film di successo, il regista pluri premiato (Nastro d’Argento e due David di Donatello) di Basilicata Coast to Coast e poi di Una piccola impresa meridionale, il cantautore di due lp, un bravo sceneggiatore e interprete teatrale... Ora è molto di più. In quei 20mq dove il superfluo non è previsto: un letto, un tavolo con sedie, una chitarra, libri sparsi, un lavandino, un piccolo fornello, il frigo, la lavatrice, tanti detersivi. Un quadro a forma di schermo televisivo. «La tv l’avevo ma si è rotta» mi racconta. E una terrazza per quando ha voglia di scrutare l’orizzonte. Qui Papaleo vive solo, non sa cucinare («Non riesco a dare sapore alle pietanze») ma non ha dubbi sulla scelta del vino («Sempre un rosso»). Tifa Roma, ma dopo essere passato da Inter e Napoli. Mi chiede se può fumare e lo fa preparandosi le sigarette alla vecchia maniera, con le cartine. Divorziato dalla mamma di suo figlio e scenografa dei suoi film, ha una compagna che fa la costumista. «Sì – mi dice serio – anche lei l’ho conosciuta sul set. Del resto è il luogo che frequento di più. Passo più tempo lì che nei bar». Sorride. Oggi, insieme a Siffredi, è il Rocco più popolare d’Italia. «Lui mi è simpatico – dice –. Siamo distanti per certi versi, ma siamo entrambi artisti e, seppure in campi diversi, abbiamo espresso al meglio i nostri talenti».
Quando ti presenti a qualcuno, sei l’unico che non può dire «Permette? Rocco Papaleo» perché saresti il titolo di un film. Lo girò Ettore Scola quando avevi 13 anni. «Tu» eri Marcello Mastroianni...
«Abbiamo sempre bisogno di segni del destino. Reali o fittizi. E quello lo è stato. Ovviamente non sapevo nulla di quel film, ero un ragazzino e abitavo in una realtà troppo piccola perché quella pellicola arrivasse. Ma a un certo punto della mia esistenza quel titolo è sbucato, forse già facevo l’attore. È stato curioso perché il mio vero nome è Antonio Rocco e nella mia prima vita tutti mi chiamavano Antonio. I primi autografi li ho firmati come Antonio. R. Papaleo. Poi ho scelto Rocco, quasi casualmente, senza pensarci. Come far partire una nuova vita».
La tua infanzia a Lauria, paese lucano che non supera i 13 mila abitanti. Papà impiegato alle imposte, mamma casalinga, tu figlio unico.
«Papà si chiamava Giacomo e mamma Giacomina. I migliori amici Giuseppe e Giuseppina. Ci ho scritto pure una canzone. Proprio da quel concetto di omogeneità tipico della provincia meridionale ho voluto sfuggire. In quella stessa canzone provocatoriamente dicevo che avrei sposato una marocchina. Soffrivo quel guscio e quei confini così stretti, dove mancava fantasia persino nei nomi di battesimo. Sono stato un bimbo spensierato, giocavo tanto a pallone. Ero pure bravo, un centravanti di manovra, come chiamavano a quei tempi. Segnavo poco, ma facevo andare in gol. Il mio carattere non era da leader, sono sempre stato un po’ una seconda linea, ma la mia simpatia si è rivelata l’arma vincente. Vivevo in una famiglia piccolo borghese, sono cresciuto in una bolla di modesti privilegi. E questo è rimasto uno dei leit motiv della mia esistenza: pochi sacrifici, ma neppure troppe esigenze».
Tu e la matematica, la tua scelta universitaria, ma cosa avete in comune?
«L’università è stato un passaggio. Poi un’amica a Roma, a mia insaputa, mi ha iscritto a una scuola di recitazione e lì inizia tutta un’altra storia. Ma la matematica è una forma mentis. E io ci sapevo fare con i numeri, anche se la mia predilezione è sempre stata per la scrittura. Ma avevo una voglia matta d’indipendenza economica e far di calcolo dava più certezze. Avevo fatto passare in secondo piano la mia indole: ai miei tempi laurearsi in ingegneria o medicina coincideva con il posto di lavoro assicurato. Ma dopo due o tre anni sono passato da ingegneria a matematica dove mi avrebbero salvato metà esami. Sicuro, proprio come è capitato a mia cugina, di fare l’insegnante al mio paese dal giorno dopo la laurea. Mai pensato al lavoro come passione, ma come fonte di guadagno. Le passioni erano altre... Io suonavo».
Oggi si condividono gli appartamenti, tu a 14 anni condividevi una chitarra.
«Sì, la comprammo insieme io e il mio amico Egidio. Costava 5 mila lire, mettemmo 2.500 lire a testa. Iniziai a studiarla da autodidatta, la usavo sempre io. Sorse una piccola polemica con l’altra famiglia, così mia mamma la riscattò restituendo loro le 2.500 lire. Io suonavo cover, le canzoni che andavano per la maggiore, per lo più pop. Il fatto di suonare mi ha insegnato a guardare la musica in modo completo, tecnicismi compresi. E probabilmente è stato quest’approccio a farmi apprezzare pure le complicazioni, aiutandomi poi anche nel mio essere regista ed attore».
Le tue parole hanno i suoni e i profumi della tua terra, hanno dentro il senso della vita e degli affetti. Penso al tuo «Pane e frittata» in «Basilicata Coast to Coast».
«Beh, c’è l’idea soprattutto dello sponzare, verbo dialettale per certi versi intraducibile, ma che ben sottolinea l’impregnarsi. È un modo osmotico di relazionarsi. Come quando nei rapporti si libera qualcosa di te e va verso gli altri e contemporaneamente gli altri lo fanno con te. La vita è tutto uno sponzarsi, è il processo inevitabile del voler crescere. Pane e frittata è una metafora a più livelli: ci sono le mie origini esaltate dal rapporto con mia madre e la mia essenza più pura rappresentata dal viaggio che ho fatto andandomene. Un imprinting a cui sono arrivato con la consapevolezza dell’adulto. Basilicata Coast to Coast rappresenta proprio il punto di svolta nella mia storia. Ho ripercorso a ritroso un viaggio nella mia terra attraverso la mia anima. E ci ho messo dentro anche quel piano B che non si è mai realizzato: l’insegnante di matematica. È stato un film molto terapeutico per me».
Le uova sono un po’ la tua fìssa. Non a caso hai detto «meglio 6 uova oggi che una gallina che rompe la minchia domani». Dimmi chi sono le uova e sopratutto chi è la gallina...
«Le uova sono le opportunità del presente e la gallina una speranza che facilmente può essere anche disattesa. Mi è capitato. Pur avendo un piede nel futuro, per lo meno nei pensieri e nel sogno, resto una persona molto concreta e calata nel presente. Vivo le fatiche contemporanee, senza smettere di pensare a un domani ricco di prospettive».
Credi nel futuro: è un bel messaggio.
«Questo deriva anche dal fatto di essere padre e di avere un figlio di 16 anni. Nelle contraddizioni della sua adolescenza sento pure un bisogno di spiritualità. Ed è proprio questa che dobbiamo rincorrere, religiosa o laica che sia. La mia è laica, completamente. È qualcosa di speciale. È il legame con l’anima e con un suono celestiale. È l’idea di un Nirvana, l’idea della musica perfetta».
Armonia. Ti piace mettere la nota giusta negli affetti.
«M’impegno, ogni giorno. Innanzitutto con mio figlio Nicola che vive al piano di sotto. E con mia moglie che anche se siamo divorziati resta mia moglie. Non ne ho un’altra. Ho una compagna che è la mia fidanzata. Porto ancora la fede nuziale, l’ho solo spostata sulla mano destra. Resta il legame, forte e sincero. Mia moglie, io e mio figlio siamo un’azienda spirituale. Nicola frequenta un liceo musicale, lo seguo quotidianamente. Parliamo molto. Educare un figlio non è facile, io sto cercando il modo migliore. Non sono un papà che riesce ad imporgli tutte le cose, ma, senza fargliele calare troppo dall’alto, cerco di fiancheggiarlo e di dargli istruzioni per la vita. Ho adottato un mio sistema. Io scrivo delle cose e gliele faccio firmare come fossero contratti in modo che tra 10 anni non mi deve rimproverare di non avergliele dette. Non sono ordini, ma consigli esistenziali: tipo non fumare, lavati i denti, leggi e scrivi quanto più possibile. Le annoto su foglietti, ci metto la data e le nostre firme, la mia e la sua. E poi le raccolgo in questo cassetto. La mia forza e la mia personalità arrivano fino a questo, di più non sono capace. Cerco il dialogo su tutto. Nicola ha una buona capacità di ragionamento analitico, non sempre esco vincente dalle nostre discussioni».
Quindi non sei uno di quelli che si vanta di essere amico del figlio...
«No. Io il mio ruolo l’ho ben presente, non ci appiccico altre etichette. Sono il papà di Nicola. I miei genitori sono stati severi, mi hanno imposto le cose. Per certi versi hanno avuto ragione, per altri mi hanno forgiato con le loro ansie, mia mamma soprattutto. E io sono uguale».
Hai cambiato il tuo concetto di amore o quello eterno continua a non esistere.
«Non ho un preconcetto, ma l’amore che posso raccontare io è a termine. Non c’è niente da fare. È la mia esperienza. E ti dirò di più, in me è più forte l’idea di innamoramento rispetto all’amore. È una droga leggera, chiamiamola così, irresistibile e irrinunciabile. È il vero carburante, quello che ti fa avere un pensiero fisso ma ti regala emozioni e pulsioni. Forti, uniche. Io mi sono innamorato veramente poche volte e i miei amori felici hanno sempre cicli brevi».
Tu hai sempre coltivato il pudore della felicità. Ci spieghi in quale luogo dell’anima si trova e come riuscire a farlo nostro?
«Io non sono un pensatore o un guru, parlo del mio stato d’animo e di come la felicità va liberata nella nostra intimità ma non vada neppure troppo sbandierata. Io ho paura, quasi il pudore di dire che mi sento realizzato. Ma se me lo chiedi ti rispondo con sincerità, non sto nascosto nel mio privilegio».
Ma sei felice?
«Io sono moderatamente felice, ma in giornate come questa sono di ottimo umore. Non ho ragione di essere infelice. Sono immerso nel mondo. Leggo, m’informo, noto le incoerenze, mi arrabbio per le ingiustizie. Cammino per strada, prendo abitualmente i mezzi pubblici e il caffè al bar. Chiacchiero, ascolto. E so che è un privilegio: essere una persona famosa, ma vivere senza alcun tipo di pressione. Libero, senza scorta. In città non uso l’auto che però mi è indispensabile per raggiungere Caprarola, 5.000 anime, mezza montagna, nel Viterbese. Da un anno e mezzo ho preso una casa lì per passarci qualche weekend, il Natale ma, sopratutto, per portarci il bagaglio di una vita. Libri, oggetti, ricordi, videocassette, dvd.... E così a 57 anni posso continuare a vivere in questi 20 metri quadrati. Sto molto in casa. Leggo, guardo film, scrivo».
Ti capita di piangere?
«Piango spesso per commozione. Di più rispetto a un decennio fa. Mi commuovo di fronte a un’opera d’arte, in un incontro inaspettato, per certi film. Ho pianto rumorosamente guardando i Cento Passi, incentrato sul rapporto tra padre e figlio. E non ho smesso neppure una volta uscito. E a dirotto per dolore mi è capitato recentemente per la perdita di un grande amico. Coi singhiozzi. Un pianto che non puoi trattenere, anche se sei un attore. Un momento di disperazione assoluta».
Hai qualcosa di non detto con tuo padre?
«Con mio padre ho avuto un buon rapporto, ma lui è morto quando avevo 30 anni. Se ne è andato troppo presto, troppi discorsi non ci siamo fatti. Io ero andato via da casa a 18 anni. Avremmo potuto farci ancora un po’ di compagnia, recuperare del tempo e delle parole. Quello che invece ho fatto con mia mamma. Ed è proprio per questo che cerco di tenermi stretto mio figlio, un continuo confronto di vita e di parole. Se poi fossi più forte e sereno gli sarei anche più utile».
Ti arrabbi mai con te stesso?
«Sì. Sono sono inflessibile nei miei confronti. A 57 anni ho appreso tante cose, ma avrei dovuto e dovrei dare di più non solo dal punto di vista professionale, ma proprio come uomo. Mi arrabbio ancora per quello che avrei dovuto fare e non ho fatto. Tipo studiare la musica. Mi sono accontentato. E ho sbagliato. Ed è quello che non vorrei capitasse a mio figlio. La malinconia del rimpianto».
Nel 2012 Gianni Morandi ti chiama per il Festival di Sanremo. In smoking trasformi gli spettatori dell’Ariston in foche. Li fai ballare e cantare al grido di «Vergognatevi e liberatevi».
«Era un invito alla leggerezza, è stato un esperimento di giovialità: facciamo qualcosa magari vergognandoci un po’ per il nostro essere buffi ma liberiamoci del nostro pudore spicciolo. Ecco perché ai politici direi “vergognatevi senza liberarvi”. Sì, proprio così. Ciclicamente mi prende pure la tentazione di buttarmi in politica. Però sento che mistificherei la mia missione».
Cos’è di preciso la meridionalità?
«Non te lo so dire in senso universale. Dipende con chi sponzi... È un’atmosfera e una pulsazione. È uno swing che ti accompagna e ti resta addosso anche se diventi figlio del mondo».
È difficile diventare tuo amico?
«È facile fino a un certo punto. Io sono alla portata di tutti, ma è molto più complicato invece essermi amico condividendone i miei stati d’animo e le traversie della mia anima. Ho centinaia di amici della prima categoria, mentre nella seconda si possono contare sulle dita di una mano».
Ogni tre o quattro anni insieme con Valter Lupo scrivi una storia che poi diventa un film. In che fase siamo ora?
«Siamo nella fase del film nuovo. Abbiamo scritto una storia, inizieremo a girarlo a luglio. Siamo a una definizione di sceneggiatura, di abbozzo di cast. Un’nticipazione: non sarà ambientato in Sud Italia. Per la prima volta lascio la mia terra».